“Gentile Professoressa, ho letto con interesse ed emozione l’articolo “L'amore nutre la vita anche nella malattia”, pubblicato il 15 gennaio scorso, e nel quale un lettore racconta come sia riuscito a vincere un tumore anche grazie all’amore per la sua compagna e a un rapporto ritrovato, meno frenetico, con il tempo e con la vita. In questi mesi mi trovo ad affrontare un problema simile, ma visto – per così dire – dal versante opposto: non sono io ad esser ammalato, ma il padre di mia moglie, un uomo a cui voglio molto bene e che sei mesi fa è stato colpito da una grave forma di mieloma. All’inizio, abbiamo tutti reagito in modo molto efficiente, garantendogli un’assistenza di qualità. Ma ora che il ricovero si prolunga, vengono fuori la stanchezza e la sfiducia. Mi rendo conto che le visite quasi quotidiane restano importanti, ma il problema è cosa fare di concreto in quelle visite, come condurle, come far sì che lascino davvero un segno positivo. A volte, vengo via dall’ospedale con un senso di impotenza e inutilità, aggravato dal fatto che mio suocero sembra sempre più dipendente da noi e, al tempo stesso, quasi incontentabile. Che cosa posso fare? Grazie di cuore”.
Giorgio F.
Giorgio F.
Gentile signor Giorgio, capisco profondamente il suo disagio. La malattia di un familiare, specie se comporta un lungo ricovero in ospedale, può effettivamente sconvolgere le nostre vite sempre più complesse e cariche di impegni. D’altro canto, è vero che chi è ammalato torna un po’ bambino, e può mettere a dura propria la nostra resistenza. Ma mettiamoci nei suoi panni: preoccupazione per l’esito della malattia, coartazione della libertà di movimento, totale dipendenza dalle cure degli altri, impotenza nel governare il corso degli eventi, effetti collaterali delle terapie antitumorali, sono tutti fattori che possono esasperare anche la più mite e paziente delle persone. Senza contare che ansia e depressione, le tristi ancelle di ogni malattia, specie se grave, possono peggiorare enormemente le condizioni complessive del malato.
In questo contesto, il compito dei familiari è duplice: trasmettere il senso di un amore che non viene meno, neppure di fronte alle peggiori difficoltà, e migliorare il più possibile la qualità di vita della persona ricoverata, attraverso un ascolto attento delle sue esigenze, espresse o meno che siano. Il tutto mantenendo uno spazio anche per sé e per il proprio benessere psicofisico, soprattutto quando la degenza si prospetta lunga: non si può correre infatti la maratona con un passo da centometrista ed è importante, nei lunghi mesi dell’assistenza, riuscire a prendersi cura anche di sé.
In questo contesto, il compito dei familiari è duplice: trasmettere il senso di un amore che non viene meno, neppure di fronte alle peggiori difficoltà, e migliorare il più possibile la qualità di vita della persona ricoverata, attraverso un ascolto attento delle sue esigenze, espresse o meno che siano. Il tutto mantenendo uno spazio anche per sé e per il proprio benessere psicofisico, soprattutto quando la degenza si prospetta lunga: non si può correre infatti la maratona con un passo da centometrista ed è importante, nei lunghi mesi dell’assistenza, riuscire a prendersi cura anche di sé.
Di che cosa ha bisogno chi è ricoverato in ospedale?
Innanzitutto, come dicevo, di un amore assoluto e incondizionato. Ogni nostra visita, ogni nostra parola devono trasmettere un messaggio forte e chiaro: «Sono qui con te, ti voglio bene, voglio aiutarti». Attenzione, però: il nostro deve essere un amore adulto, coraggioso, capace di ribellarsi alla logica delle rassicurazioni inutili e delle frasi fatte (“ti vedo bene”, “vedrai che presto torni a casa”). Certo, compatibilmente con la capacità emotiva del malato di assumere la gravità della propria situazione. Ci sono persone che non riuscirebbero mai a sostenere il peso della verità, e rispetto alle quali occorre essere estremamente prudenti. Ma ce ne sono altre per le quali è importante poter guardare in faccia la malattia ed esprimere le proprie paure: soffocarne la voce con il nostro silenzio, con le nostre pietose menzogne, le condannerebbe a una solitudine senza speranza. Questo vale a maggior ragione quando il ricoverato esprima l’esigenza di rivedere, alla luce della malattia, tutta la propria vita, per cercarne il senso profondo e giungere così a una sorta di pacificazione interiore.
E a livello pratico?
Cerchiamo di capire che cosa ci farebbe piacere se fossimo noi in quel letto, al posto della persona malata: in questo modo ci diventeranno spontanei quei piccoli gesti che possono confortare a lungo, e rendere la vita meno disagevole e complicata. Le possibilità sono tantissime: il quotidiano abituale, l’ultimo libro dell’autore preferito, acqua o bibite fresche, una piccola radio o un lettore CD per ascoltare un po’ di musica... tutto può dare conforto, soprattutto sa va a soddisfare una passione o un’abitudine consolidata, ricreando così – nei limiti del possibile – una gradevole sensazione di normalità.
Il problema è che di solito l'ambiente non aiuta...
Verissimo. Purtroppo, con qualche eccezione, i nostri ospedali non agevolano questo percorso di cura emotiva, men che meno negli anziani o nei malati gravi, il cui estraniamento estremo dagli affetti avviene negli efficienti ma gelidi reparti di rianimazione. Ma questo è un motivo in più per non cedere allo sconforto e alla sfiducia. Quante volte, contro ogni speranza, le persone guariscono perché si sono sentite profondamente amate dai familiari e dagli amici? Che io sappia, non abbiamo studi controllati che dimostrino il potere di guarigione dell’amore. Ma una ricerca condotta, una quindicina d’anni fa, su bambini molto prematuri ha dimostrato che i piccoli sottoposti non solo al normale trattamento medico, ma anche a una dose quotidiana di carezze, mostravano un significativo e più rapido miglioramento di tutti gli indici vitali. Ciò che si è dimostrato vero per quegli esserini, può esserlo anche per gli adulti!
Lei prima accennava al fatto che ansia e depressione peggiorano la condizione del malato: in che modo?
Amplificando enormemente la percezione del dolore: fino a tre volte, se domina l’ansia, e oltre otto volte, se prevale la depressione. Ciò non significa che il dolore sia inventato per “ragioni psicologiche”, ma che la sua percezione, dimensione squisitamente soggettiva, aumenta quando questi sentimenti negativi facilitano l’arrivo dei segnali algici periferici al cervello. Di converso, un buon tono dell’umore, la distrazione che viene dal sentirsi in compagnia, magari in piacevole conversazione, o anche solo un massaggio affettuoso sulle mani o sul viso, possono enormemente attenuare la percezione del dolore, con un meccanismo sia biologico, sia psichico.
Per i familiari, che senso può avere l'esperienza di assistere un malato?
La malattia degli altri ci obbliga a ripensare la nostra stessa vita e il significato che essa può avere nonostante il dolore o oltre il dolore. Per chi assiste, e si trova con la doppia ferita di toccare con mano la malattia di una persona cara e la frustrazione dell’impotenza, questo periodo può essere l’occasione per ripensare anche le proprie priorità: accettando un certo rallentamento dei ritmi lavorativi, la temporanea riduzione degli orizzonti di svago, e cercando al contempo di mantenere da un lato degli spazi di riflessione, dall’altro dei momenti di gioia e di ricarica fisica ed emotiva.
Questa è la cosa più difficile... Uno si sente in colpa a prendersi degli spazi per sé.
Invece è assolutamente indispensabile, per chi assiste, ritagliare ogni giorno un po’ di tempo per sé, fosse solo per una passeggiata, una nuotata, un giro in bicicletta. L’importante, però, è che il momento di ricarica sia anche fisico, corporeo. Perché è indispensabile sfogare con il movimento le emozioni negative e le tensioni anche muscolari che la malattia ci trasmette, soprattutto quando tocca una persona amata o comunque di famiglia. Solo così si può reggere bene nel medio-lungo termine, contrastando la fatica, la stanchezza, la malinconia, il senso di impotenza. Molti auguri, di cuore, a suo suocero e a tutti voi.