Nella Germania del Nord ci sono misteriose paludi. Più volte bonificate, ritornano paludi. L’acqua cheta riaffiora dal suolo lenta e resta ferma. Avvolge le radici di alberi e cespugli, soffoca l’erba. Il terreno melmoso affiora qua e là. Il tempo si ferma. La palude, qui, è più forte dell’uomo. Metafora potente di altre acque, ferme e mortifere, che vivono dentro di noi, e possono riaffiorare insidiose. Silenziose, vincono ogni slancio con inerzia inquieta; intrappolano la volontà. Acque melmose che ci riportano nel passato, in vecchi rimorsi, debolezze inquietanti, accidie o vizi oscuri. Forze del male che ritornano, mai sconfitte, e ripetono altro male. Anche questa è vita, di sinistra fascinazione, ma ha regole che sfuggono all’ordine e alla luce. Difficile uscire vivi da queste paludi.
La stanza è buia. Su tre pareti, su sei schermi ovali, come occhi scrutanti, scorrono immagini diverse, in bianco e nero, di questa palude, con piani che scivolano lenti, gli uni sugli altri, come se l’anima della palude, o un vento leggero, sfiorasse appena i rami immoti e l’acqua ferma. Il tempo è sospeso, diventa il tempo del sogno, dell’immaginazione, della riflessione. Un violoncello accompagna le immagini, come se la palude avesse una sua voce e un suo canto. Bisogna essere soli, qui, per entrare pensosi e silenziosi in emozioni diverse, mentre il tempo scorre tra diverse stagioni e ore del giorno, fino all’imbrunire, quando l’immagine diventa una fessura sottile, come un ultimo raggio di vita tra le palpebre che si chiudono. Un cerchio di luce, appena più nitido, quasi una torcia che pulsa, scruta lentamente la palude, come uno sguardo che cerca insonne qualcosa o qualcuno.
Bisogna essere soli, in questo buio prezioso, fatto d’immagini, di suggestioni e melodia, per lasciar risuonare le proprie corde più profonde, ricordi e associazioni, con qualche nota di bellezza e qualche ombra di rimpianto. Soli, altrimenti tutta la magia delle emozioni si perde, distrutta dagli sguardi distratti di chi entra ed esce, dallo scalpiccio di piedi frettolosi, perduta tra gli spintoni di ombre umane che macinano stanze su stanze come fossero pop-corn. “Ghardi”, si chiama quest’opera, innovativa e unica, esposta al Museo d’Israele, a Gerusalemme, nella sezione dedicata alle Lanterne Magiche: alla potenza evocativa della luce e della narrazione visiva e multisensoriale. L’autrice è Yehudit Sasportas, artista ebrea. Il nome Ghardi include le iniziali dei nomi dei suoi sei fratelli. Uno è stato ucciso in un attacco palestinese. Quest’opera è una ricerca di senso, ma anche uno scrutare dentro la potenza del male che torna paludoso a chiedere altre morti. E chiede a ciascuno, che si ponga in ascolto, di riscrutare le proprie inquietudini, le proprie melmose negatività, le proprie persistenti paludi. Davvero un’opera emozionante.
Museo sorprendente, questo d’Israele. Dentro, vi si trova il mondo della memoria e della ricomposizione, costruito con grandi mezzi e straordinario senso dell’innovazione, della conservazione, della valorizzazione. Tra le mille opere, custodisce con cura orgogliosa anche la Sinagoga di Vittorio Veneto, costruita nel Settecento come luogo di culto della locale comunità di ebrei ashkenaziti. Abbandonata agli inizi del secolo scorso, quando la comunità si è spostata in città più grandi, è stata acquistata e ricostruita qui. All’interno, il verde veronese delle decorazioni sobrie e luminose e la bellezza del legno parlano italiano: e raccontano di una fede che sapeva essere profonda e serena.
Bisogna essere soli, per dialogare in profondità con un’opera d’arte, come con un bel libro. Una solitudine magnifica e scelta, sia chiaro, vibrante di energia: senza rumori di fondo, senza concitazioni. In vite veloci come le nostre, rallentare fino a fermarsi per il piacere sublime di entrare in un’opera originale, di ascoltarla e lasciarla parlare all’anima, questa è bellezza assoluta. Sia essa la suggestiva Ghardi, o la piccola Sinagoga di Vittorio Veneto, con i suoi colori gentili e la sua luce, che sorride quieta, finalmente a casa. A Gerusalemme.
La stanza è buia. Su tre pareti, su sei schermi ovali, come occhi scrutanti, scorrono immagini diverse, in bianco e nero, di questa palude, con piani che scivolano lenti, gli uni sugli altri, come se l’anima della palude, o un vento leggero, sfiorasse appena i rami immoti e l’acqua ferma. Il tempo è sospeso, diventa il tempo del sogno, dell’immaginazione, della riflessione. Un violoncello accompagna le immagini, come se la palude avesse una sua voce e un suo canto. Bisogna essere soli, qui, per entrare pensosi e silenziosi in emozioni diverse, mentre il tempo scorre tra diverse stagioni e ore del giorno, fino all’imbrunire, quando l’immagine diventa una fessura sottile, come un ultimo raggio di vita tra le palpebre che si chiudono. Un cerchio di luce, appena più nitido, quasi una torcia che pulsa, scruta lentamente la palude, come uno sguardo che cerca insonne qualcosa o qualcuno.
Bisogna essere soli, in questo buio prezioso, fatto d’immagini, di suggestioni e melodia, per lasciar risuonare le proprie corde più profonde, ricordi e associazioni, con qualche nota di bellezza e qualche ombra di rimpianto. Soli, altrimenti tutta la magia delle emozioni si perde, distrutta dagli sguardi distratti di chi entra ed esce, dallo scalpiccio di piedi frettolosi, perduta tra gli spintoni di ombre umane che macinano stanze su stanze come fossero pop-corn. “Ghardi”, si chiama quest’opera, innovativa e unica, esposta al Museo d’Israele, a Gerusalemme, nella sezione dedicata alle Lanterne Magiche: alla potenza evocativa della luce e della narrazione visiva e multisensoriale. L’autrice è Yehudit Sasportas, artista ebrea. Il nome Ghardi include le iniziali dei nomi dei suoi sei fratelli. Uno è stato ucciso in un attacco palestinese. Quest’opera è una ricerca di senso, ma anche uno scrutare dentro la potenza del male che torna paludoso a chiedere altre morti. E chiede a ciascuno, che si ponga in ascolto, di riscrutare le proprie inquietudini, le proprie melmose negatività, le proprie persistenti paludi. Davvero un’opera emozionante.
Museo sorprendente, questo d’Israele. Dentro, vi si trova il mondo della memoria e della ricomposizione, costruito con grandi mezzi e straordinario senso dell’innovazione, della conservazione, della valorizzazione. Tra le mille opere, custodisce con cura orgogliosa anche la Sinagoga di Vittorio Veneto, costruita nel Settecento come luogo di culto della locale comunità di ebrei ashkenaziti. Abbandonata agli inizi del secolo scorso, quando la comunità si è spostata in città più grandi, è stata acquistata e ricostruita qui. All’interno, il verde veronese delle decorazioni sobrie e luminose e la bellezza del legno parlano italiano: e raccontano di una fede che sapeva essere profonda e serena.
Bisogna essere soli, per dialogare in profondità con un’opera d’arte, come con un bel libro. Una solitudine magnifica e scelta, sia chiaro, vibrante di energia: senza rumori di fondo, senza concitazioni. In vite veloci come le nostre, rallentare fino a fermarsi per il piacere sublime di entrare in un’opera originale, di ascoltarla e lasciarla parlare all’anima, questa è bellezza assoluta. Sia essa la suggestiva Ghardi, o la piccola Sinagoga di Vittorio Veneto, con i suoi colori gentili e la sua luce, che sorride quieta, finalmente a casa. A Gerusalemme.