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Cancro: quando la diagnosi è più fatale della malattia

16/04/2012

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Il paziente ha un cancro? Il medico deve sempre dire la verità. Sì, ma come? Quanto pesano le parole, il tatto, la sensibilità, nel comunicare la diagnosi sull’impatto che la tremenda parola “cancro” può evocare in ciascuno di noi? Quanto vale la capacità di sottolineare comunque gli spazi di speranza e la capacità di presenza e di conforto del medico, ma anche, poi, dei familiari, di fronte a una prova comunque difficile e delicata?
Questa riflessione è urgente se analizziamo i dati emersi da uno studio poderoso condotto in Svezia, dove tutte le cartelle mediche dei cittadini sono computerizzate e analizzabili. Lo studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine del 5 aprile, ha coinvolto 6.073.240 svedesi, dai trent’anni in su, dal 1991 al 2006: Fang Fang e collaboratori, del Dipartimento di Epidemiologia Clinica e Biostatistica del Karolinska Institutet di Stoccolma, sono andati a valutare che cosa succeda a una persona che riceva una diagnosi di cancro, dal punto di vista della salute, indipendentemente dalle cure.
Il rischio di suicidio, dal momento dalla comunicazione della diagnosi, aumenta di 12.6 volte (pari al 1260% in più!), nella prima settimana e di 3.1 nel primo anno (310% in più), rispetto al rischio basale di suicidio che un cittadino ha nel corso della vita. Il rischio di morte per ictus o infarto, davvero per “crepacuore”, come si diceva una volta, aumenta, invece, di 5.6 volte (560%) nella prima settimana e di 3.3 volte (330%) nel corso delle prime quattro settimane. L’incremento del rischio è elevato quando la prognosi è più dura. I ricercatori hanno valutato anche lo stato di salute e i fattori di rischio precedenti: i suicidi post diagnosi non avevano precedenti psichiatrici di depressione o psicosi; e quelli morti per infarto non avevano fattori antecedenti che potessero predisporre a un evento cardiovascolare acuto. Tipi diversi di personalità possono in parte spiegare il modo in cui si è compiuta la fuga della vita: con una decisione attiva di auto-soppressione, per quelli più estroversi e/o attivi, con un’implosione di dolore per quelli più riservati o soli, in cui l’aumento violento dell’adrenalina e degli ormoni dello stress può aver causato una vasocostrizione letale per il cuore.
I dati sono impressionanti. E indiscutibili dal punto di vista dell’attendibilità, data la numerosità delle persone studiate e il rigore nella registrazione delle cartelle e dell’analisi. Semmai, l’entità dell’impatto fatale va presa per difetto. I ricercatori esaminano qui solo un dato “duro”: la morte. Ma suggeriscono, nella discussione finale della ricerca, che nell’immediato periodo post-diagnosi di cancro ci possa essere comunque una sofferenza pesantissima che può tradursi in eventi non registrati (come i suicidi non diagnosticati come tali: per esempio quanti incidenti d’auto “inspiegabili”, con il solo conducente nell’abitacolo, potrebbero in realtà essere autoprovocati?), oppure meno gravi della morte: per esempio un infarto parziale, un ictus non fatale o un suicidio non riuscito.
Come ridurre questa vulnerabilità, specchio di una solitudine percepita come irrimediabile di fronte a una malattia grave? Noi medici dovremmo davvero metterci sempre nei panni del nostro paziente, quando parliamo, e soprattutto quando comunichiamo diagnosi pesanti. Dovremmo comunicare la diagnosi con tatto e sensibilità, dando il giusto rilievo alla problematicità della situazione ma anche alle potenzialità di guarigione – o per lo meno di controllo della progressione della patologia – insite nelle cure. Ogni reparto oncologico dovrebbe poter fornire un supporto internistico e cardiologico, per un aiuto specifico sul fronte della vulnerabilità cardiovascolare, oltre che un aiuto psichiatrico e psicologico, con particolare attenzione alla fase di massima vulnerabilità, subito dopo la diagnosi.
Molto, moltissimo, conta anche la famiglia, che spesso va in panico quanto e più della persona malata, non riuscendone a contenere l’angoscia. Per tutti noi, questo studio è un monito a stare davvero più vicini a chi riceva una diagnosi che può essere, in sé, più fatale della malattia.

Rapporto medico-paziente Suicidio Tumori e linfomi

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