Ecco i più importanti: parto prematuro, con tutti i rischi legati alla prematurità (il rischio è doppio rispetto alle donne che non fumano); basso peso alla nascita, perché c’è una crescente insufficienza nutritiva da parte della placenta (rispetto all’età gestazionale); basso quoziente intellettivo (QI), impulsività e iperattività del piccolo nell’infanzia. Neurologi francesi segnalano che l’effetto negativo delle sostanze cui il piccolo è esposto proiettano un’ombra molto lunga e duratura perché i danni causati alle cellule nervose possono essere permanenti e tradursi in disturbi dell’apprendimento e/o motori, disturbi del linguaggio, disturbi cognitivi (con deficit di attenzione, memoria, funzioni esecutive), deficit di attenzione. Attualmente l’uso accertato riguarda il 5-6% (tanto!) delle donne gravide in Francia, ma si ritiene che il dato sia nettamente sottostimato, perché i medici non lo chiedono sistematicamente e le donne non lo rivelano spontaneamente, ritenendolo a priori innocuo.
Perché il feto è molto vulnerabile? Il bambino in utero è in strettissimo e continuo scambio biochimico con la mamma. (Quasi) tutto quello che la mamma assume passa al piccolo, indipendentemente dalla modalità di assunzione. Il tetraidrocannabinolo (THC), principale componente psicoattivo della cannabis, attraversa la placenta e arriva a tutti i tessuti del piccolo, tra cui il cervello, per il quale il THC ha particolare affinità. Nel nostro cervello esistono infatti i cannabinoidi endogeni (i nostri analgesici interni) con i loro recettori specifici cui si lega anche il THC. Le cellule nervose del feto e del neonato sono molto più vulnerabili di quelle degli adulti, perché sono in fase di attivissima moltiplicazione e crescita, fatto che le rende molto recettive a sostanze potenzialmente tossiche come la cannabis. In più, il THC si accumula anche nel latte, per cui a ogni poppata il piccolo si prende una quantità di THC proporzionale all’uso che ne fa la mamma (sporadico vs quotidiano). In medio al piccolo arriva il 2,5% della dose che ha usato la mamma. Il modo con cui la cannabis è consumata non fa differenza: inalata, fumata, mangiata, in pillole o in forme topiche.
Non si può banalizzare né scherzare. Purtroppo oggi qualsiasi opinione soggettiva sembra avere lo stesso valore di affermazioni basate su solide evidenze cliniche. Tuttavia, quando è in gioco una possibile riduzione della salute mentale del proprio figlio/a, il senso di responsabilità verso il piccolo che verrà dovrebbe indurre a documentarsi seriamente e, nel dubbio, evitare l’uso di sostanza pericolose per non fargli correre rischi inutili. Tra queste la possibilità che sindromi di astinenza da sostanze nel neonato possano non essere diagnosticate e trattate adeguatamente. Oltre al fatto che il cervello del piccolo riceve comunque un “imprinting”, un marchio biologico, che potrebbe poi renderlo più vulnerabile all’uso di sostanze, e più rapidamente dipendente, in senso biologico e psichico, fin dall’adolescenza.
Basta con gli improvvisi e inconsistenti «io penso che», non documentati e non verificati. Bando alle opinioni senza evidenza, proposte come verità di fede, soprattutto quando comportano rischi pesanti per una terza persona che li subisce suo malgrado, com’è il figlio in utero e durante l’allattamento. Poiché non esiste una soglia minima di sicurezza, sull’uso di cannabis (ma anche altre sostanze!) in gravidanza e allattamento, il messaggio forte è uno solo: tolleranza zero.
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