William Shakespeare, Much Ado About Nothing, 1599
Mamme a quarant’anni e oltre? Perché no? Eccole: sorridenti e felici sulle copertine delle riviste più lette, se sono donne famose. Icone di un gruppo in rapida crescita in un’Italia sedotta dalle cicogne tardive.
E’ questo uno dei dati emergenti in un’Italia sempre più cauta nel procreare nelle età più giovani: l’età media generale della prima gravidanza è infatti di 31 anni e tre mesi, al pari dell’Irlanda che contende all’Italia questo primato europeo. Mentre l’Italia detiene senza rivali il record europeo e mondiale di prime gravidanze dopo i 40 anni.
Per le donne al primo figlio, il sogno di diventare madri, rimandato a lungo per un desiderio prima immaturo, oppure per ragioni di realizzazione professionale, per motivi economici o per la mancanza di un partner con cui costruire un progetto di famiglia, può diventare acutamente doloroso con l’avvicinarsi dei quarant’anni. Un’età che storicamente segnava per le donne il limite per una fertilità sicura e sana. Limite reale: sia perché la probabilità di concepire spontaneamente si riduce drasticamente dopo tale età, sia perché aumentano i rischi di avere un bambino in vario grado imperfetto.
Quali fattori contribuiscono a questo cambiamento? Innanzitutto, la differenza fra età psichica ed età biologica. A quarant’anni molte donne si sentono “ragazze”, con gli entusiasmi e i desideri di una donna di almeno dieci anni di meno. E non solo emotivamente. Soprattutto coloro che hanno seguito sani stili di vita, hanno corpi e volti decisamente più giovani. Sono donne ardenti, luminose, con la convinzione che il meglio della vita sia ancora lì davanti, pronto ad accendersi con la scintilla dell’ultimo sogno: un figlio. Il pensiero diventa rapidamente dominante: se un figlio non è stato ancora concepito, perché non ora? Quando la serenità economica è certa, quando la vita professionale ha collocato ambizioni e desideri affettivi in un’altra prospettiva, ora che con un partner si può fare un progetto di vita. Nell’età dorata della pienezza e della consapevolezza. Un bimbo “espressivo” di un desiderio di chiudere il cerchio delle soddisfazioni esistenziali. Accanto a loro, più nell’ombra ma più numerose, le donne che intorno ai quarant’anni fanno un bilancio di vita non del tutto soddisfacente: il lavoro non ha dato le soddisfazioni attese, l’amore ha deluso più di una volta. Ed ecco la folgorazione: «Un bambino mio può riaccendere di luce la mia vita». Un bambino “riparativo”, che nasce con un’ipoteca complessa sul proprio destino: dare senso alla vita della mamma o della coppia.
L’ultima ondata di cicogne tardive sorride comunque baldanzosa: con quali opportunità, tuttavia, e quali rischi? Le Italiane tendono infatti in generale a rimandare la stagione della maternità, in parte per difficoltà obiettive. In parte per la convinzione, alimentata dai media, che “volere è potere” e che nel terzo millennio quello che non si può realizzare naturalmente verrà sicuramente concretizzato grazie alla scienza e alla tecnologia, con la cosiddetta procreazione medico assistita (PMA).
Già, perché non ora? Purtroppo la biologia ovarica mantiene i limiti di sempre. Le cellule riproduttive, gli ovociti, perdono la loro qualità dopo i trent’anni, con un secondo crollo dopo i 35-38 anni. Scarsa qualità che si traduce in un aumento degli aborti spontanei, che arrivano al 40% dei concepimenti a quarant’anni, e nell’8% di malformazioni a termine, una percentuale doppia rispetto alla media nazionale, che è del 3-5%, a seconda della zona di residenza. Aumenta, in particolare, il rischio di malattie cromosomiche.
Il secondo fattore di cambiamento è la possibilità di diagnosi sempre più precoci e meno invasive. Addirittura pre-impianto, in caso di procreazione medico assistita. E di diagnosi prenatale, ricercando le cellule fetali nel sangue materno. Un semplice prelievo di sangue alla madre consente di individuare e studiare anche le cellule fetali che vi sono migrate. E di studiare anche i frammenti di DNA fetale presenti nel sangue della mamma, sufficienti per una diagnosi prenatale nella maggioranza dei casi: con una sensibilità diagnostica del 99% per la trisomia 21 (sindrome di Down) e del 95% per la monosomia X (sindrome di Turner).
Altrimenti, dalla 10° alla 12° settimana di gravidanza (SG) è possibile fare la villocentesi, che ci dirà con certezza se il bambino è cromosomicamente sano e senza le principali malattie genetiche che possiamo diagnosticare. Alla 16° SG sarà possibile l’amniocentesi, per chi non avesse potuto o voluto fare prima questi accertamenti. Villocentesi e amniocentesi non ci danno la garanzia di un bimbo perfetto, perché sono molti i fattori che possono interferire con la salute del nascituro durante la gravidanza e il parto. Ma i guai maggiori di tipo cromosomico, e alcuni di tipo genetico, possono essere diagnosticati. Questo può dare un’enorme serenità alle donne che concepiscono dopo i quarant’anni: che sollievo sapere fin quasi dall’inizio che il bambino è sano!
E se non lo fosse? Se l’esame ci dà quel responso terribile, temuto come un incubo: malato, o affetto da anomalia cromosomica? Questo può comportare una scelta pesante, sia affettiva sia etica: un aborto terapeutico. Scelta di cui non si parla, perché si preferisce posare lo sguardo sulle gravidanze felici. Ma il costo di dolore e di pianto, nell’ombra dell’ultimo scacco procreativo che si concluda con un aborto, può essere tremendo e più pesante della sola infertilità. Come resta doloroso, per le coppie che scelgano di non abortire, l’avere un bambino variamente problematico.
Il terzo fattore di cambiamento, la grande rivoluzione che ha sbaragliato il limite non solo dei quarant’anni, ma anche quello dei cinquanta e oltre, è la fecondazione assistita, con ovodonazione. Se la donna ha un utero normale (senza fibromi o malformazioni) può concepire, anche oltre i sessant’anni, con le opportune cure ormonali e l’ovodonazione. Quest’ultima è da poco di nuovo possibile in Italia. All’estero da molti anni tutto si fa: con una donatrice giovane, intorno ai venticinque anni, c’è la massima probabilità di un ovocita sano e vitale. Se il partner è fertile, ecco il sogno realizzato: il bimbo è geneticamente figlio del padre (50% dei geni) e della donatrice (50%). Ma una donna che si sente crescere il bimbo dentro per nove mesi, che lo sente muovere, lo partorisce e lo allatta, quanto si cura della genetica? Il bimbo è suo e basta.
E, ancora, ecco le ulteriori possibilità di avere, anche tardi, un “figlio proprio”, con l’utero in affitto. O con il trapianto d’utero, per chi non lo avesse per malformazioni congenite (sindrome di Rokitansky) e o per interventi di isterectomia per patologia dell’utero. Figlio della tecnologia, di un amore e di un sogno.
Sarà un bambino prezioso, probabilmente un po’ viziato. Ma, accertato che sia sano, fino ai cinquant’anni di età della madre non ci sono per lui rischi psicologici superiori rispetto alle mamme di età inferiore ai quaranta.
E allora, si dicono molte donne, perché no? Danzerà ancora la stellina? In questo libro, due sono le indicazioni principe. Per le donne giovani, rendere chiare le molte ragioni per scegliere, se possibile, di anticipare la stagione della procreazione, per realizzare i propri sogni con maggiore semplicità e certezza di risultato. Per le donne vicino o oltre i quarant’anni, dare tutte le indicazioni per scegliere il meglio, per sé, per il bambino e per la coppia.
Anche le cicogne tardive possono regalare bimbi meravigliosi.
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