I due ragazzi ridono felici. «Ti porto io», dice lui. «Sali sul muretto e ti prendo su!». «Guarda che non ce la fai!». «Ti dico di sì, dai, fidati!». «Noooo, ho paura!». «Ma sì, dai, non fare la fifona…». Lei sale sul muretto, mette una gamba sulla spalla di lui. Ridendo cerca di mettere l’altra, oscillano, perdono l’equilibrio, lei cade male, batte violentemente testa e collo. Urla. Soccorsi inadeguati, con primi tentativi di aiuto da parte dei presenti inesperti che forse peggiorano il danno. Difficile dire. La diagnosi neurologica è tragica: tetraplegia. La vita della ragazza, e della sua famiglia, sono distrutte per sempre. Fatalità, si dice. La stessa che agisce nei tuffi in acqua troppo bassa, che possono causare traumi neurologici irreversibili. Fatalità (?) in molti sport con evoluzioni in aria in cui il rischio di cadute rovinose è altissimo. Nonché alla guida, quando si corre per arrivare presto, prendendo dei rischi che potrebbero non farci arrivare, vivi e sani, mai più.
Qual è il limite della fatalità? Ne parlavo con una collega che lavora con giovani para o tetraplegici in seguito ad incidenti evitabili, nella maggior parte dei casi. Certo, una quota di imponderabilità, di “destino” o fato, esiste in tutte le vite. Tuttavia, l’età delle persone colpite da traumi spinali irreversibili mostra con assoluta evidenza un picco fra i giovani. Che cosa amplifica in modo così drammatico la loro vulnerabilità alla fatalità? La non percezione delle conseguenze dei loro comportamenti. Ma i bambini ce l’hanno ancor meno, questa percezione, si dice. Vero. E infatti di regola hanno – o dovrebbero avere –un adulto responsabile vicino che li educa a percepire i rischi legati ai loro comportamenti e li protegge con sguardo attento. Il sistema funziona: infatti questo tipo di incidenti, nei bambini, è più raro. Nell’adolescenza, la rete di protezione esterna garantita dalla presenza continua dei genitori o di adulti affidabili, viene meno. L’adolescente sta sperimentando il vero, grande passaggio all’autonomia, all’autogestione, alla sperimentazione della vita in prima persona. Questo è giusto e necessario. Tutto va bene se la rete di protezione “eteronoma”, ossia formata su e da regole esterne, è stata interiorizzata e fatta propria. Ossia se è diventata “autonoma”, scelta dal ragazzo stesso come regola di vita: perché “ha la testa sulle spalle”. Qui si differenziano tre gruppi di personalità e di vulnerabilità.
Il gruppo più a rischio è quello dei ragazzi/e alla continua ricerca di emozioni e sensazioni nuove (“sensation-seeking”). Con loro, fin da piccoli, i genitori dovrebbero attuare un’educazione ancora più attenta a far interiorizzare il codice dei rischi. Per aiutarli a riconoscere e anticipare di più e meglio le conseguenze della loro sete di avventura nella vita. Sete che altrimenti può non conoscere limiti anche per quanto riguarda alcol, droghe e sperimentazioni d’ogni tipo. Il secondo gruppo è il più sano: sono ragazzi/e curiosi, che si mettono alla prova in sport anche di alto agonismo, ma con un buon senso del limite oltre il quale sanno intuire che i rischi diventano altissimi. Sono ragazzi/e in cui si combinano bene un naturale senso del pericolo con un’educazione attenta a renderli responsabili della propria vita, senza però bloccarne la voglia di conoscere e sperimentarsi. Il terzo gruppo, in sé a basso rischio di incidenti, è quello in cui si combinano un temperamento ansioso, o francamente pauroso, con un’educazione che può diventare paralizzante, se esasperata da una madre troppo ansiosa. In tal caso il basso rischio di incidenti ha un prezzo alto in termini di salute emotiva e gusto di vivere. Oltre ad una vulnerabilità specifica, sottovalutata, quando questi ragazzi si trovino a far da gregari ad elementi del primo gruppo, da cui sono affascinati: potrebbero diventare vittime inconsapevoli delle sperimentazioni altrui, che gli altri però sanno fare con un più alto livello di competenza fisica e mentale. Col rischio quindi di farsi male, anche seriamente, in situazioni (“momenti fatali”) ancora di sicurezza per quelli più arditi.
Una sfida in più per i genitori d’oggi è educare i figli a calibrare il gusto di sperimentarsi nella vita. Senza sfidare la fatalità.
Qual è il limite della fatalità? Ne parlavo con una collega che lavora con giovani para o tetraplegici in seguito ad incidenti evitabili, nella maggior parte dei casi. Certo, una quota di imponderabilità, di “destino” o fato, esiste in tutte le vite. Tuttavia, l’età delle persone colpite da traumi spinali irreversibili mostra con assoluta evidenza un picco fra i giovani. Che cosa amplifica in modo così drammatico la loro vulnerabilità alla fatalità? La non percezione delle conseguenze dei loro comportamenti. Ma i bambini ce l’hanno ancor meno, questa percezione, si dice. Vero. E infatti di regola hanno – o dovrebbero avere –un adulto responsabile vicino che li educa a percepire i rischi legati ai loro comportamenti e li protegge con sguardo attento. Il sistema funziona: infatti questo tipo di incidenti, nei bambini, è più raro. Nell’adolescenza, la rete di protezione esterna garantita dalla presenza continua dei genitori o di adulti affidabili, viene meno. L’adolescente sta sperimentando il vero, grande passaggio all’autonomia, all’autogestione, alla sperimentazione della vita in prima persona. Questo è giusto e necessario. Tutto va bene se la rete di protezione “eteronoma”, ossia formata su e da regole esterne, è stata interiorizzata e fatta propria. Ossia se è diventata “autonoma”, scelta dal ragazzo stesso come regola di vita: perché “ha la testa sulle spalle”. Qui si differenziano tre gruppi di personalità e di vulnerabilità.
Il gruppo più a rischio è quello dei ragazzi/e alla continua ricerca di emozioni e sensazioni nuove (“sensation-seeking”). Con loro, fin da piccoli, i genitori dovrebbero attuare un’educazione ancora più attenta a far interiorizzare il codice dei rischi. Per aiutarli a riconoscere e anticipare di più e meglio le conseguenze della loro sete di avventura nella vita. Sete che altrimenti può non conoscere limiti anche per quanto riguarda alcol, droghe e sperimentazioni d’ogni tipo. Il secondo gruppo è il più sano: sono ragazzi/e curiosi, che si mettono alla prova in sport anche di alto agonismo, ma con un buon senso del limite oltre il quale sanno intuire che i rischi diventano altissimi. Sono ragazzi/e in cui si combinano bene un naturale senso del pericolo con un’educazione attenta a renderli responsabili della propria vita, senza però bloccarne la voglia di conoscere e sperimentarsi. Il terzo gruppo, in sé a basso rischio di incidenti, è quello in cui si combinano un temperamento ansioso, o francamente pauroso, con un’educazione che può diventare paralizzante, se esasperata da una madre troppo ansiosa. In tal caso il basso rischio di incidenti ha un prezzo alto in termini di salute emotiva e gusto di vivere. Oltre ad una vulnerabilità specifica, sottovalutata, quando questi ragazzi si trovino a far da gregari ad elementi del primo gruppo, da cui sono affascinati: potrebbero diventare vittime inconsapevoli delle sperimentazioni altrui, che gli altri però sanno fare con un più alto livello di competenza fisica e mentale. Col rischio quindi di farsi male, anche seriamente, in situazioni (“momenti fatali”) ancora di sicurezza per quelli più arditi.
Una sfida in più per i genitori d’oggi è educare i figli a calibrare il gusto di sperimentarsi nella vita. Senza sfidare la fatalità.
Adolescenti e giovani Bambini Educazione Incidenti Riflessioni di vita