Che il lavoro sia (anche) un dovere, è principio quasi smarrito nell’etica professionale. Sopravvive in chi ha una professione indipendente, che sia una piccola impresa, una professione liberale o commerciale, quando il dovere si illumina di luci diverse e più gratificanti: una motivazione forte, che si rinnova e risplende con l’esperienza, la soddisfazione, il guadagno, il crescere della competenza e della capacità innovativa, il rispetto tra i pari. Vive a sprazzi, quando il lavoro ha un forte margine di discrezionalità creativa: per esempio, lo splendido lavoro dell’insegnante, che è anche un onore e un privilegio, perché dà l’opportunità, la sfida e lo stimolo di lavorare con la parte più duttile e vivace di un Paese: i suoi bambini, i suoi ragazzi. O quando ha anche, come il lavoro dell’insegnante, una formidabile dimensione etica, per chi la sappia e voglia cogliere e valorizzare, come potrebbe succedere in tutte le professioni sanitarie. Purtroppo, il lavoro può invece essere alienante nelle professioni dipendenti, se ripetitive, o con compiti solo esecutivi e a minima varietà, come succede nelle fabbriche con dure catene di montaggio.
Per migliorare il grado di soddisfazione che abbiamo nel nostro lavoro, o per prepararci bene per cambiarlo in meglio, dovemmo porci una domanda cardinale: che ruolo ha il lavoro nella mia vita? E’ strumentale? E per quale scopo? Per guadagnarmi uno stipendio, per ottenere visibilità, o altri vantaggi? E’ difensivo, rispetto a un sentimento di inadeguatezza o di fallimento, che non riesco ad affrontare? O è espressivo di talenti e aspirazioni, ambizioni e vocazioni? E se è espressivo, quanto e come mi impegno ogni giorno per realizzare i miei progetti e i miei sogni? In quest’anno di lavoro variamente “sospeso”, come ho impiegato il tempo? Per pensare, studiare, acquisire nuove competenze, o sono stato travolto dalla palude dell’inerzia, della collera, della depressione, o dalla passiva dipendenza dai vari social?
«Fa’ il lavoro che ami e non lavorerai mai nella tua vita», pare abbia detto Confucio circa 2500 anni fa. L’affermazione mette limiti molto forti al velleitarismo professionale, anzi lo esclude. Per scegliere davvero un lavoro bisogna conoscere se stessi, i propri talenti e i propri limiti, che sono l’ineludibile perimetro in cui ridimensionare i sogni “sine materia”, coltivare le proprie inclinazioni e consolidare invece i progetti realizzabili. Avete notato quanti adolescenti rispondano con un vago o imbarazzato “non so” alla domanda «Cosa vorresti fare da grande?». Imbarazzo che è specchio di un disagio più profondo: «Se non so neanche chi sono e perché sto al mondo adesso, cosa vuoi che sappia o sogni su cosa farò domani?». Il conoscersi è preliminare per coltivare ogni giorno talenti e competenze, con pazienza, impegno, perseveranza. «Mi ci sono già dedicato/a più di diecimila ore?», perché questo è il tempo ideale per aspirare all’eccellenza professionale. «O sto appeso al telefonino?».
Il 22,2% dei giovani italiani, oltre 2 milioni, non studia, non è in formazione, non lavora e non lo cerca: il peggior dato in Europa. La perniciosa via dell’assistenzialismo non è la risposta per questa crescente parte della popolazione. Perché incoraggia la passività. Perché spreca talenti e opportunità, autostima e soddisfazione. E perché carica il costo sulle spalle di chi lavora, e non ritiene giusto dover provvedere a chi potrebbe studiare e non studia, potrebbe lavorare e non lavora, potrebbe impegnarsi per innalzare il proprio livello di professionalità e non lo fa.
Ridare valore allo studio e alla preparazione professionale, come dovere e impegno, oltre che come diritto: questa è la strada. Il gusto del lavoro si costruisce anche attraverso la responsabilità quotidiana. Fino ad amarlo come innamorati, pur coi suoi giorni di pioggia. E il tempo vola, soddisfatto e felice.
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