“Abbiamo accumulato tante ferite. Se non ne siamo consapevoli, tutte le nostre azioni diventeranno reazioni a queste ferite. Nella conoscenza di sé c’è la fine di questo dolore, e quindi l’inizio della saggezza.” Questo sostiene Jiddu Krishamurti, filosofo indiano.
Conosci te stesso, dunque. Non solo nel senso della personalità, del carattere o dei talenti. Soprattutto nel concetto di consapevolezza, questo sapere interiore che può essere declinato con molteplici accezioni. Nella prospettiva di Krishamurti, l’occhio dell’anima deve essere in grado di fare una ricognizione di tre tipi di ferite psichiche, che altrimenti alimentano automatismi reattivi che continuano a rinnovare e peggiorare il dolore di vivere.
Innanzitutto le ferite ben cicatrizzate, che ci danno la misura della nostra capacità di guarire e che dovrebbero essere il paradigma di un modo sano, costruttivo ed evolutivo di affrontare le infinite difficoltà che incontriamo e le lacerazioni con cui i rovi e i reticolati della vita strappano la nostra pelle. Restano allora dei segni sottili, traccia di percorsi vissuti e di cadute da cui siamo riusciti a riprenderci bene e a ripartire. Simili a quando da bambini ci si sbucciava le ginocchia per correre un po’ più forte in bicicletta, o salire un po’ più in alto sull’albero di ciliege, o si giocava a nascondino la sera, nei giardini grandi dei nonni, e per l’entusiasmo o l’emozione non si vedeva il sasso nel buio che ci faceva inciampare. Sono cicatrici cui guardiamo con tenerezza e, a volte, un filo di nostalgia, perché ci ricordano comunque un tempo dell’innocenza in cui la vita ci sembrava limpida e sicura, nel piccolo mondo delle nostre famiglie, allora solide e dai futuri più prevedibili.
Poi ci sono le ferite chiuse, sì, ma retratte. Quelle che fanno male quando cambia il tempo, quelle che ci limitano i movimenti o che, ancora più insidiosamente, ci hanno indotto a un cambio di postura. Ossia dell’assetto non solo muscolare ma di tutto l’atteggiamento del corpo, in senso fisico sì, ma anche psichico. Chi si è fratturato una gamba, per esempio, caricherà sempre più l’altra, anche a distanza di vent’anni. Tenderà inconsciamente a proteggere l’arto una volta ferito e così lo manterrà di fatto più debole e vulnerabile. Nello sport, è più probabile rompere o strappare l’arto già leso. Ma anche i muscoli della schiena cambieranno l’assetto di carico. E molti dolori muscolari non sono altro che l’eco lontana, a distanza di anni o decenni, di ferite apparentemente saldate ma che continuano a lasciare il loro segno attivo nella memoria profonda del corpo. Dal punto di vista psichico succede esattamente la stessa cosa. Il cambio di postura esprime proprio l’atteggiamento di difesa che istintivamente tendiamo a mettere in atto per evitare di ferirci ancora e forse di più. La corazza interiore tende a corrispondere alla corazza muscolare che molti di noi si costruiscono, più o meno inconsciamente, come difesa da sentimenti dolorosi che non riusciamo ad affrontare sul piano psichico. La corazza, psichica o fisica che sia, ci protegge, sì, ma limita i nostri movimenti, i nostri slanci, le nostre emozioni, ci separa da un’intimità davvero appagante perché comunque costituisce una barriera che contemporaneamente protegge e isola, come la corazza della testuggine.
E poi ci sono le ferite aperte, quelle che continuano ad infettarsi, a sanguinare, a causare dolore. Che ci danno preoccupazione, che ci riempiono di rancore verso chi ci ha feriti, di rabbia per la salute o il benessere perduto, di collera, di tensione, di paura o di angoscia. Pian piano s’impara a convivere anche con le ferite aperte, come con le ulcere dello stomaco o il dolore dei calli o il mal di schiena. In realtà, pur di andare avanti, semplicemente spingiamo nel dominio delle risposte adattative automatiche tutti i sentimenti e le emozioni negative che le ferite fisiche o psichiche, mal cicatrizzate o ancora aperte, comportano. Tanto più quanto più la loro origine risale all’infanzia o all’adolescenza.
La psicoanalisi chiama questa dinamica “transfert”, con un termine oscuro ai più. Il filosofo indiano dice la stessa cosa, in termini più semplici. Per la verità il transfert include anche sentimenti ed emozioni di tipo positivo, e non solo negativo, che avvertiamo a livello inconscio e che determinano molti dei nostri comportamenti solo apparentemente “spontanei”, le simpatie e le antipatie, le collere e gli innamoramenti, le permalosità e gli entusiasmi sproporzionati. E’ interessante scoprire come culture diverse abbiano dato voce, magari con espressioni differenti, a una legge universale. Noi siamo quello che siamo stati. Le esperienze negative passate, le ferite subite, tendono a condizionare tutta la nostra vita, in modo tanto più pervadente quanto più sono sfuggite alla nostra consapevolezza. “Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, e la nostra vita è circondata da un sonno”. Così dice Shakespeare, ne “La tempesta”, e il sonno è anche quello della memoria consapevole.
A Oriente come a Occidente, i saggi ci suggeriscono una via regia, per stare meglio. Conosci te stesso, le tue ferite, le tue cicatrici. Tutte le volte in cui ci viene una risposta aggressiva sproporzionata rispetto alla causa, o proviamo un sentimento di dolore profondo, esasperato rispetto alla situazione che l’ha provocato, o comunque un’emozione ridondante, dovremmo fermarci. Dovremmo respirare profondamente e seguire in silenzio il sentimento di malessere che ci pervade, prendendoci una necessaria pausa di silenzio, anche breve, dal rumore del mondo. Respirando lentamente e a fondo, a occhi chiusi, si aprono le vie misteriose della memoria. Riaffiorano fatti ed eventi sedimentati. Come la fisioterapia può correggere posture alterate, ridare ampiezza e completezza di movimento ad arti feriti, e armonia al corpo, così il percorso della consapevolezza interiore, come i sassolini di Pollicino, può aiutarci a ritrovare la via di casa.
Di quella casa interiore ai tempi dell’innocenza, dove è consolante stare, dove la gioia di vivere si ricarica, ed è possibile far guarire bene, o meglio, anche ferite antiche. Dove si può vivere (anche) senza corazze. O per lo meno con corazze flessibili, che possiamo scegliere di indossare se siamo in guerra, come certi ambienti professionali oggi richiedono, ma facili da togliere, a piacere, quando torniamo a casa. Saggezza è questo. E anche riuscire a trovare delle oasi dello spirito dove, anche adulti, si possa ritrovare il piacere antico di essere se stessi: un po’ meno zoppi, tristi e dolenti di quanto una vita inconsapevole delle ferite passate ci porti a essere, nostro malgrado.
Conosci te stesso, dunque. Non solo nel senso della personalità, del carattere o dei talenti. Soprattutto nel concetto di consapevolezza, questo sapere interiore che può essere declinato con molteplici accezioni. Nella prospettiva di Krishamurti, l’occhio dell’anima deve essere in grado di fare una ricognizione di tre tipi di ferite psichiche, che altrimenti alimentano automatismi reattivi che continuano a rinnovare e peggiorare il dolore di vivere.
Innanzitutto le ferite ben cicatrizzate, che ci danno la misura della nostra capacità di guarire e che dovrebbero essere il paradigma di un modo sano, costruttivo ed evolutivo di affrontare le infinite difficoltà che incontriamo e le lacerazioni con cui i rovi e i reticolati della vita strappano la nostra pelle. Restano allora dei segni sottili, traccia di percorsi vissuti e di cadute da cui siamo riusciti a riprenderci bene e a ripartire. Simili a quando da bambini ci si sbucciava le ginocchia per correre un po’ più forte in bicicletta, o salire un po’ più in alto sull’albero di ciliege, o si giocava a nascondino la sera, nei giardini grandi dei nonni, e per l’entusiasmo o l’emozione non si vedeva il sasso nel buio che ci faceva inciampare. Sono cicatrici cui guardiamo con tenerezza e, a volte, un filo di nostalgia, perché ci ricordano comunque un tempo dell’innocenza in cui la vita ci sembrava limpida e sicura, nel piccolo mondo delle nostre famiglie, allora solide e dai futuri più prevedibili.
Poi ci sono le ferite chiuse, sì, ma retratte. Quelle che fanno male quando cambia il tempo, quelle che ci limitano i movimenti o che, ancora più insidiosamente, ci hanno indotto a un cambio di postura. Ossia dell’assetto non solo muscolare ma di tutto l’atteggiamento del corpo, in senso fisico sì, ma anche psichico. Chi si è fratturato una gamba, per esempio, caricherà sempre più l’altra, anche a distanza di vent’anni. Tenderà inconsciamente a proteggere l’arto una volta ferito e così lo manterrà di fatto più debole e vulnerabile. Nello sport, è più probabile rompere o strappare l’arto già leso. Ma anche i muscoli della schiena cambieranno l’assetto di carico. E molti dolori muscolari non sono altro che l’eco lontana, a distanza di anni o decenni, di ferite apparentemente saldate ma che continuano a lasciare il loro segno attivo nella memoria profonda del corpo. Dal punto di vista psichico succede esattamente la stessa cosa. Il cambio di postura esprime proprio l’atteggiamento di difesa che istintivamente tendiamo a mettere in atto per evitare di ferirci ancora e forse di più. La corazza interiore tende a corrispondere alla corazza muscolare che molti di noi si costruiscono, più o meno inconsciamente, come difesa da sentimenti dolorosi che non riusciamo ad affrontare sul piano psichico. La corazza, psichica o fisica che sia, ci protegge, sì, ma limita i nostri movimenti, i nostri slanci, le nostre emozioni, ci separa da un’intimità davvero appagante perché comunque costituisce una barriera che contemporaneamente protegge e isola, come la corazza della testuggine.
E poi ci sono le ferite aperte, quelle che continuano ad infettarsi, a sanguinare, a causare dolore. Che ci danno preoccupazione, che ci riempiono di rancore verso chi ci ha feriti, di rabbia per la salute o il benessere perduto, di collera, di tensione, di paura o di angoscia. Pian piano s’impara a convivere anche con le ferite aperte, come con le ulcere dello stomaco o il dolore dei calli o il mal di schiena. In realtà, pur di andare avanti, semplicemente spingiamo nel dominio delle risposte adattative automatiche tutti i sentimenti e le emozioni negative che le ferite fisiche o psichiche, mal cicatrizzate o ancora aperte, comportano. Tanto più quanto più la loro origine risale all’infanzia o all’adolescenza.
La psicoanalisi chiama questa dinamica “transfert”, con un termine oscuro ai più. Il filosofo indiano dice la stessa cosa, in termini più semplici. Per la verità il transfert include anche sentimenti ed emozioni di tipo positivo, e non solo negativo, che avvertiamo a livello inconscio e che determinano molti dei nostri comportamenti solo apparentemente “spontanei”, le simpatie e le antipatie, le collere e gli innamoramenti, le permalosità e gli entusiasmi sproporzionati. E’ interessante scoprire come culture diverse abbiano dato voce, magari con espressioni differenti, a una legge universale. Noi siamo quello che siamo stati. Le esperienze negative passate, le ferite subite, tendono a condizionare tutta la nostra vita, in modo tanto più pervadente quanto più sono sfuggite alla nostra consapevolezza. “Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, e la nostra vita è circondata da un sonno”. Così dice Shakespeare, ne “La tempesta”, e il sonno è anche quello della memoria consapevole.
A Oriente come a Occidente, i saggi ci suggeriscono una via regia, per stare meglio. Conosci te stesso, le tue ferite, le tue cicatrici. Tutte le volte in cui ci viene una risposta aggressiva sproporzionata rispetto alla causa, o proviamo un sentimento di dolore profondo, esasperato rispetto alla situazione che l’ha provocato, o comunque un’emozione ridondante, dovremmo fermarci. Dovremmo respirare profondamente e seguire in silenzio il sentimento di malessere che ci pervade, prendendoci una necessaria pausa di silenzio, anche breve, dal rumore del mondo. Respirando lentamente e a fondo, a occhi chiusi, si aprono le vie misteriose della memoria. Riaffiorano fatti ed eventi sedimentati. Come la fisioterapia può correggere posture alterate, ridare ampiezza e completezza di movimento ad arti feriti, e armonia al corpo, così il percorso della consapevolezza interiore, come i sassolini di Pollicino, può aiutarci a ritrovare la via di casa.
Di quella casa interiore ai tempi dell’innocenza, dove è consolante stare, dove la gioia di vivere si ricarica, ed è possibile far guarire bene, o meglio, anche ferite antiche. Dove si può vivere (anche) senza corazze. O per lo meno con corazze flessibili, che possiamo scegliere di indossare se siamo in guerra, come certi ambienti professionali oggi richiedono, ma facili da togliere, a piacere, quando torniamo a casa. Saggezza è questo. E anche riuscire a trovare delle oasi dello spirito dove, anche adulti, si possa ritrovare il piacere antico di essere se stessi: un po’ meno zoppi, tristi e dolenti di quanto una vita inconsapevole delle ferite passate ci porti a essere, nostro malgrado.