Lipstick alla vitamina E (!): sequestrato. Crema idratante per il viso in versione mignon: sequestrata. Mascara (pericoloso?): sequestrato. Dentifricio altamente pericoloso: sequestrato. Crema detergente per il viso, in tubetto (confezione sospetta?): sequestrata. Sapone detergente al timo: guardato con sospetto e sequestrato. Goccine per dormire e limitare il jet-lag (veleno?): sequestrate. Non credo ai miei occhi, che pur volano quasi tutte le settimane. Lo zelante check del mio potenziale potere deflagrante porta a sequestrare gran parte della mia minitrousse da viaggio, prima del viaggio per Atlanta. Misteriosamente, due tubetti di latte idratante sopravvivono festosi al raid della non sistematica impiegata (più ossessionata dal ruolo che attenta). Li scopro poi che ridono nella tasca laterale della borsa che lei non ha considerato. Più irritante ancora, un paio di forbicine, rimasto in fondo alla borsa, ha superato, restando invisibile, ben 3 maxi controlli.
Due problemi sostanziali si intrecciano: il controllo paranoico di minuzie e l’assenza invece della necessaria attenzione sistematica, affidabile e rigorosa, tenuta a livello costantemente elevato. Sono stati e sono ancora questi buchi neri di attenzione a consentire comunque il passaggio di oggetti ben più pericolosi di un lipstick. Dopo la borsetta, trolley svuotato, a me come agli altri. Riparte la perquisizione, dopo le due già effettuate. ”Si tolga le scarpe”. Lo sguardo occhiuto sillaba: ”Ortopediche?”. “No, da ginnastica”. “Si tolga la cintura (bianca e innocente) e la giacca” (leggera, sfoderata, di lino in cui è impossibile nascondere alcunché). Il tutto per la terza volta Un’ora e quaranta minuti in coda (ennesima) già dopo la verifica delle carte d’imbarco e aver percorso il finger di collegamento all’aereo, proprio sulla porta del potente mezzo. Un’ultima verifica, just in case. Quasi due (altre) ore di vita buttate nel cestino della paranoia collettiva, che unite alle altre due trascorse dal check-in, fanno una mattina in piedi in aeroporto, sempre in coda, a subire gli stessi controlli, accumulando oltre due ore di ritardo sulla partenza. Alla fine, onde evitare l’inutile sequestro di oggetti assolutamente e obiettivamente innocui, chiedo di imbarcare anche il bagaglio a mano. Amen. Tengo il computer e mi rassegno al peggio. Inclusa l’altra ora di attesa del bagaglio, con coincidenza ormai stretta, e rischio, anzi certezza, di perderla, dato il ritardo già accumulato.
Un mese dopo l’11 settembre ero negli Stati Uniti, per lavoro, “when people were nesting”, quando gli americani riscoprivano il nido e la famiglia. Adrenalina ovunque, paura palpabile, controlli severissimi ma logici. Ci sono tornata più volte negli ultimi cinque anni, con un senso crescente di oppressione. Che ora è diventato netta sensazione di abuso. Abuso di tempo. Abuso di vita. Abuso di dignità. Abuso di viaggiatori innocenti e incolpevoli. Abuso di libertà, anche per quel sequestro paranoico delle piccole innocue cose che confortano un viaggio, e la cecità su altre.
Normalmente, dopo un evento drammatico, l’allerta si acquieta e diventa più attenta routine. Qui no. Il senso di chi viaggi molto per lavoro è che l’abuso della libertà individuale durante queste molteplici perquisizioni sia diventato intollerabile. Al punto da far passare la voglia di volare anche al più appassionato dei viaggiatori, per lo meno verso alcuni Paesi. Nessuno obietta a controlli logici e rigorosi. Ma l’elenco che ho citato dice che si è perso di vista l’essenziale. Dice con chiarezza che il Paese della libertà e della tolleranza si sta avvitando su un’ossessione pericolosa. Lascia circolare in patria decine di migliaia di fucili, con stragi nelle scuole – fatte da civili americani – che stanno aumentando a ritmo preoccupante e sequestra con aria zelante un lipstick. Un potere davvero forte ed etico sa andare all’essenziale. E’ un potere vulnerabilissimo quello che ha paura di un dentifricio o di un mascara. O un lipstick alla vitamina E può essere fatale?
Guardo la lunga fila rassegnata e silenziosa, che mi ricorda altre file, rassegnate e silenziose, di gente perbene. Nella guerra del terrore, chi ha vinto, davvero?
Due problemi sostanziali si intrecciano: il controllo paranoico di minuzie e l’assenza invece della necessaria attenzione sistematica, affidabile e rigorosa, tenuta a livello costantemente elevato. Sono stati e sono ancora questi buchi neri di attenzione a consentire comunque il passaggio di oggetti ben più pericolosi di un lipstick. Dopo la borsetta, trolley svuotato, a me come agli altri. Riparte la perquisizione, dopo le due già effettuate. ”Si tolga le scarpe”. Lo sguardo occhiuto sillaba: ”Ortopediche?”. “No, da ginnastica”. “Si tolga la cintura (bianca e innocente) e la giacca” (leggera, sfoderata, di lino in cui è impossibile nascondere alcunché). Il tutto per la terza volta Un’ora e quaranta minuti in coda (ennesima) già dopo la verifica delle carte d’imbarco e aver percorso il finger di collegamento all’aereo, proprio sulla porta del potente mezzo. Un’ultima verifica, just in case. Quasi due (altre) ore di vita buttate nel cestino della paranoia collettiva, che unite alle altre due trascorse dal check-in, fanno una mattina in piedi in aeroporto, sempre in coda, a subire gli stessi controlli, accumulando oltre due ore di ritardo sulla partenza. Alla fine, onde evitare l’inutile sequestro di oggetti assolutamente e obiettivamente innocui, chiedo di imbarcare anche il bagaglio a mano. Amen. Tengo il computer e mi rassegno al peggio. Inclusa l’altra ora di attesa del bagaglio, con coincidenza ormai stretta, e rischio, anzi certezza, di perderla, dato il ritardo già accumulato.
Un mese dopo l’11 settembre ero negli Stati Uniti, per lavoro, “when people were nesting”, quando gli americani riscoprivano il nido e la famiglia. Adrenalina ovunque, paura palpabile, controlli severissimi ma logici. Ci sono tornata più volte negli ultimi cinque anni, con un senso crescente di oppressione. Che ora è diventato netta sensazione di abuso. Abuso di tempo. Abuso di vita. Abuso di dignità. Abuso di viaggiatori innocenti e incolpevoli. Abuso di libertà, anche per quel sequestro paranoico delle piccole innocue cose che confortano un viaggio, e la cecità su altre.
Normalmente, dopo un evento drammatico, l’allerta si acquieta e diventa più attenta routine. Qui no. Il senso di chi viaggi molto per lavoro è che l’abuso della libertà individuale durante queste molteplici perquisizioni sia diventato intollerabile. Al punto da far passare la voglia di volare anche al più appassionato dei viaggiatori, per lo meno verso alcuni Paesi. Nessuno obietta a controlli logici e rigorosi. Ma l’elenco che ho citato dice che si è perso di vista l’essenziale. Dice con chiarezza che il Paese della libertà e della tolleranza si sta avvitando su un’ossessione pericolosa. Lascia circolare in patria decine di migliaia di fucili, con stragi nelle scuole – fatte da civili americani – che stanno aumentando a ritmo preoccupante e sequestra con aria zelante un lipstick. Un potere davvero forte ed etico sa andare all’essenziale. E’ un potere vulnerabilissimo quello che ha paura di un dentifricio o di un mascara. O un lipstick alla vitamina E può essere fatale?
Guardo la lunga fila rassegnata e silenziosa, che mi ricorda altre file, rassegnate e silenziose, di gente perbene. Nella guerra del terrore, chi ha vinto, davvero?