«Leggilo bene, angelo mio. Così capirai che cos’è davvero la guerra». Mio padre, che era stato ufficiale degli alpini con onore, mi mise in mano “Il sergente nella neve”, di Mario Rigoni Stern (Einaudi). Avrò avuto undici anni. Lettrice appassionata, adoravo immergermi nelle storie fino a diventare parte della storia stessa, che non dimenticavo più. Mi piacevano i romanzi storici. Romanzi, appunto. Dove la vita è raccontata, immaginata, sognata, ricostruita. Dove perfino la guerra è romantica. E può entusiasmare una mente giovane e ardente e assetata di vita. Nei romanzi manca, nella sostanza, il principio di realtà. La morte è un’idea, come lo è oggi nei videogiochi. La morte nella guerra vera, invece, è concreta, è feroce. Il dolore di ferite mortali può essere immenso, lungo, devastante. Non consolato. Muori lontano da casa e solo. Ti sgomenta il pensiero che la tua vita è rimasta incompiuta. E che forse la tua morte non ha avuto scopo né senso.
Scritto da Mario Rigoni Stern in un lager tedesco, nell’inverno del 1944, dopo essere stato fatto prigioniero, “Il sergente nella neve” è molto di più della testimonianza sulla tragica campagna di Russia che ha portato al massacro decine di migliaia di soldati italiani (e russi). E’ l’esperienza devastante di una lotta per la sopravvivenza che non separa mai il sé dagli altri. Tu sei responsabile dei tuoi uomini, prima ancora che di te stesso e della tua vita. Leggi il libro e sei nella pelle di Rigoni, in trincea. Col freddo pauroso, la puzza, lo sporco, i pidocchi che escono in cordata dal collo, la scabbia e il rancio gelato. Con la brutalità aspra della vita nel bunker, nell’inverno infinito. Con il terrore negli occhi, ma la capacità di fare ancora una battuta per alleggerire la tensione, tua e dei tuoi uomini. Di sentire le emozioni e i sentimenti dei tuoi soldati, nonostante la brutalità estrema del gelo e della guerra. Si spara sul nemico, ma si riesce a mantenere il senso della sua verità di uomo. La campagna di Russia in cui si entra sommessi, preoccupati e spaventati, camminando con i soldati in trincea, dà angoscia, senso di morte imminente, urgenza di sopravvivere, di trovare la via per tornare a casa, senza lasciare il posto di combattimento fino a che non arrivi l’ordine, altrettanto angosciante, di ritirarsi: perché si è accerchiati. Qui non hanno spazio l’enfasi e la retorica dei grandi discorsi. Qui si vive quanto possano essere profondi il coraggio, la dignità, la forza morale di un uomo, di fronte alla morte. Qui si pensa con un altro passo.
L’ho riletto in questi giorni. Parla ancora al mio cuore. Mi ricorda mio padre, il suo amore, la sua onestà. In tempi di disonestà infettiva, di codardia, di opportunismo viscerale, di banalizzazione della corruzione e del male, di strumentalizzazioni pervadenti, di invidia narcisa, mi aiuta a credere che in un uomo ci siano qualità straordinarie che merita coltivare. Non bisogna arrendersi alla corruzione morale. A questo virus, più infettivo di un’epidemia, più letale, per la coscienza morale, di una pallottola. Anche in quella remota trincea sul Don c’è il vigliacco, o il disperato, che si spara sul piede per sfuggire al fronte, essere rimpatriato, e vivere con la pensione. Ma i più sanno essere uomini, e comportarsi da uomini, anche se il cuore trema come una foglia di betulla. Diventano un esempio il tenente Cenci, gli uomini del Morbegno, del Vestone, della Tridentina. Il loro coraggio. Il sergente Baroni, che dava gli ordini di tiro precisi, con calma, anche nell’inferno, e non sciupava mai le bombe. E nemmeno le parole. Capisci il Giuanin, che chiedeva sempre: «Sergentmagiù, ghe rivarèm a baita?», e a casa non è più tornato. Senti il dolore dell’attesa, senza il ritorno. La madre del Rino, che è rimasta viva solo per aspettarlo, gli occhi consumati dalle lacrime (mi ricorda “La madre dell’ucciso”, statuetta bronzea di epoca nuragica, conservata al museo di Cagliari, nell'immagine qui accanto: il dolore universale delle madri i cui figli non tornano). Senti l’umanità dei contadini russi e delle donne nelle isbe, capaci di condividere un piatto di minestra e il calore di un fuoco, nella fame gelata dall’inverno.
Aveva ragione mio padre. Quel libro è stato una folgorazione, umana ed etica. Ben consigliato, al momento opportuno, un libro scelto tocca il cuore. Fa pensare. Stimola a cercare il senso etico della vita. Anche così si forma la coscienza morale di un figlio. L’unica eredità che merita lasciare.
Scritto da Mario Rigoni Stern in un lager tedesco, nell’inverno del 1944, dopo essere stato fatto prigioniero, “Il sergente nella neve” è molto di più della testimonianza sulla tragica campagna di Russia che ha portato al massacro decine di migliaia di soldati italiani (e russi). E’ l’esperienza devastante di una lotta per la sopravvivenza che non separa mai il sé dagli altri. Tu sei responsabile dei tuoi uomini, prima ancora che di te stesso e della tua vita. Leggi il libro e sei nella pelle di Rigoni, in trincea. Col freddo pauroso, la puzza, lo sporco, i pidocchi che escono in cordata dal collo, la scabbia e il rancio gelato. Con la brutalità aspra della vita nel bunker, nell’inverno infinito. Con il terrore negli occhi, ma la capacità di fare ancora una battuta per alleggerire la tensione, tua e dei tuoi uomini. Di sentire le emozioni e i sentimenti dei tuoi soldati, nonostante la brutalità estrema del gelo e della guerra. Si spara sul nemico, ma si riesce a mantenere il senso della sua verità di uomo. La campagna di Russia in cui si entra sommessi, preoccupati e spaventati, camminando con i soldati in trincea, dà angoscia, senso di morte imminente, urgenza di sopravvivere, di trovare la via per tornare a casa, senza lasciare il posto di combattimento fino a che non arrivi l’ordine, altrettanto angosciante, di ritirarsi: perché si è accerchiati. Qui non hanno spazio l’enfasi e la retorica dei grandi discorsi. Qui si vive quanto possano essere profondi il coraggio, la dignità, la forza morale di un uomo, di fronte alla morte. Qui si pensa con un altro passo.
L’ho riletto in questi giorni. Parla ancora al mio cuore. Mi ricorda mio padre, il suo amore, la sua onestà. In tempi di disonestà infettiva, di codardia, di opportunismo viscerale, di banalizzazione della corruzione e del male, di strumentalizzazioni pervadenti, di invidia narcisa, mi aiuta a credere che in un uomo ci siano qualità straordinarie che merita coltivare. Non bisogna arrendersi alla corruzione morale. A questo virus, più infettivo di un’epidemia, più letale, per la coscienza morale, di una pallottola. Anche in quella remota trincea sul Don c’è il vigliacco, o il disperato, che si spara sul piede per sfuggire al fronte, essere rimpatriato, e vivere con la pensione. Ma i più sanno essere uomini, e comportarsi da uomini, anche se il cuore trema come una foglia di betulla. Diventano un esempio il tenente Cenci, gli uomini del Morbegno, del Vestone, della Tridentina. Il loro coraggio. Il sergente Baroni, che dava gli ordini di tiro precisi, con calma, anche nell’inferno, e non sciupava mai le bombe. E nemmeno le parole. Capisci il Giuanin, che chiedeva sempre: «Sergentmagiù, ghe rivarèm a baita?», e a casa non è più tornato. Senti il dolore dell’attesa, senza il ritorno. La madre del Rino, che è rimasta viva solo per aspettarlo, gli occhi consumati dalle lacrime (mi ricorda “La madre dell’ucciso”, statuetta bronzea di epoca nuragica, conservata al museo di Cagliari, nell'immagine qui accanto: il dolore universale delle madri i cui figli non tornano). Senti l’umanità dei contadini russi e delle donne nelle isbe, capaci di condividere un piatto di minestra e il calore di un fuoco, nella fame gelata dall’inverno.
Aveva ragione mio padre. Quel libro è stato una folgorazione, umana ed etica. Ben consigliato, al momento opportuno, un libro scelto tocca il cuore. Fa pensare. Stimola a cercare il senso etico della vita. Anche così si forma la coscienza morale di un figlio. L’unica eredità che merita lasciare.
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