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Diabete: i rischi di renderlo "normale"

Diabete: i rischi di renderlo 'normale'
20/02/2023

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

La bambina, con diabete di tipo 1, autoimmune, va dal diabetologo con la mamma. «Come va?», chiede il medico. «Malissimo», risponde la piccola. «Quando i miei compagni mangiano la brioche o un dolce, la maestra non me lo lascia fare perché ho il diabete!». «No!», dice il medico. «Nessuno ti deve mai più dire cosa puoi o non puoi mangiare! D’ora in avanti chiami la mamma e le chiedi quante unità di insulina ti devi fare per poter mangiare il dolce anche tu!».
Il colloquio mi è stato riferito dalla maestra, in forte difficoltà su come comportarsi. Certo, il diabete infantile è un problema enorme. Comporta rinunce, vite super controllate, iniezioni ripetute di insulina, ogni giorno. E’ davvero una patologia con un carico fisico ed emotivo pesante. Tuttavia la conversazione così riportata fra il medico e la piccola è indicativa di una generale tendenza a rendere “normali” tutte le patologie, dal diabete all’obesità, fino all’osteoporosi, per essere “inclusivi” e “non discriminanti”. Attenzione: minimizzare ogni problema, o negarlo, e il non dare più regole da rispettare per mantenere il miglior profilo di salute è pericoloso perché, nel caso specifico, l’esasperata fluttuazione glicemica data dal rapido carico di zuccheri con cibi dolci e dalla contromisura insulinica può accelerare infiammazione sistemica, sovrappeso e obesità, con sindrome metabolica precoce e serie patologie nel lungo termine.
Ogni tanto, è giusto dare un po’di respiro, anche dalle regole. Tuttavia, se il normalizzare diventa strategia quotidiana, se la bambina mangia esattamente le merende super-dolci dei suoi compagni (negative pure per loro: i bambini italiani sono i più grassi d’Europa), la questione diventa seria.
La tendenza a normalizzare il diabete, e a usare l’insulina come “correttore rapido” di ogni trasgressione alimentare, interessa ormai tutte le fasce di età. Aumenta il numero di pazienti diabetiche, sovrappeso od obese, con evidente sindrome metabolica, che mi dicono: «No, a un dolcetto non rinuncio. Mi faccio un po’ di insulina in più, e il problema è risolto». No, non è risolto: si aggrava, e molto. Nell’ombra del diabete, patologia pandemica molto sottovalutata, sono in agguato complicanze multiple che si potenziano tra loro: la sofferenza delle fibre nervose (“neuropatie periferiche”), con danni sensitivi e motori progressivi; dei piccoli vasi sanguigni (“angiopatie periferiche”), con carenza di ossigeno ai tessuti e infezioni fino a causare la gangrena; insufficienza renale (“nefropatia diabetica”) e lesioni della retina (“retinopatia diabetica”).
Il diabete merita un maggior senso di responsabilità e tutta la nostra attenzione: se non curato bene, può accorciare la vita di 5-10 anni, rispetto alle persone non affette. Non solo: può ridurre anche l’aspettativa di salute, ossia la vita in efficienza e autonomia, di altri 10-15 anni, in media, rispetto ai non diabetici: un terzo di vita bruciato! Inutile poi sperare in farmaci magici o in terapie miracolose. E attenti all’alcol, un veleno in più per i diabetici, perché ricco anche di zuccheri e lieviti. La giovane donna, 35 anni, diabetica, obesa, a cui raccomando di non bere mi dice soave che non può rinunciare alle “happy hour” alcoliche perché tutte le sue amiche bevono: «E’ normale!», conclude. E quando insisto sulla necessità di evitare gli zuccheri e l’alcol, perché, oltre a peggiorare il diabete, le causano continue infezioni da Candida e dolore vulvare, ribatte: «Mi dia una cura che funzioni, invece!». In sintesi: «Faccio quello che mi pare. E se tu, medico, non mi risolvi questo problema, sei tu l’incapace».
Fortunatamente la maggioranza delle pazienti con cui ho il piacere di fare squadra per un solido progetto di salute ha tre caratteristiche essenziali: si assumono la responsabilità di collaborare, migliorando i loro stili di vita e seguendo bene le prescrizioni, farmacologiche e non; sono educate; e rispettano la competenza del clinico, con risultati di grande soddisfazione per loro e le loro famiglie, oltre che per me.
Resta il problema di fondo, trasversale e pericoloso: rendere “normali” le patologie, anche da parte di noi medici, per non essere discriminanti, come dicevo, peggiora il loro andamento, con un costo crescente in termini di salute, di vita e di infelicità. Se siamo tutti lebbrosi, la lebbra non è normale: siamo tutti ammalati di una patologia atroce. Meglio riconoscere i limiti che ogni malattia impone, per valorizzare gli spazi di recupero di salute. Una scelta di maggiore sobrietà, di costanza e autodisciplina, con più attività fisica quotidiana all’aria aperta, significa essere protagonisti della propria salute per mantenere (anche) più normale la glicemia, e più alti l’energia vitale e il gusto di vivere bene più a lungo, molto più sani.

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