«La mia ragione è l’odio», scrive un ignoto sui muri di Milano. L’odio è un generatore di energia distruttiva: verso gli altri, certamente. Ma anche verso se stessi: con minore evidenza, ma altrettanta potenza. Su Internet, Facebook, Twitter, su tutti i “social media”, insulti, diffamazioni, denigrazioni, aggressioni verbali sono nettamente superiori ai commenti positivi e costruttivi. Con la complicità dell’anonimato, certo, che rende facile denigrare: «Tanto non ne rispondo». Pura vigliaccheria: per inciso, il numero di insulti e diffamazioni, se ci fosse l’obbligo di firmare i propri pensieri con la vera identità, e di risponderne quindi anche in sede civile e penale, si ridurrebbe drasticamente.
Qual è l’identikit del diffamatore? Ecco alcuni denominatori comuni: un alto grado di frustrazione, innanzitutto. Chi è contento e soddisfatto ha altro da fare. L’incapacità di realizzarsi: se l’avesse, spenderebbe le proprie energie in modo costruttivo. E sarebbe più felice. Una bassa autostima, che si illude di alzare, cercando di abbassare il valore degli altri. Una scarsa capacità di provare gioia per gli aspetti positivi dell’esistenza: il picco della soddisfazione, il denigratore lo prova nel diffamare. Può fare del male? Molto. Può essere distruttivo fino a istigare al suicidio? Purtroppo sì: basti vedere i suicidi di adolescenti messi alla berlina sui social media. Può istigare all’omicidio? Sì: dal prototipo Jago, quanti degli assassini “per passione” non sono stati istigati da calunnie e diffamazioni verso la propria donna?
Ma ecco il punto: il denigratore fa del male a se stesso, anche se l’impunità dell’anonimato fa credere di essere immuni e intoccabili? Sì, molto. Innanzitutto, chi diffama sui social media di regola è un distruttivo anche nei rapporti interpersonali. Può aggregarsi temporaneamente ai suoi pari, ed esaltarsi condividendo l’oltraggio. Ma resta un solo. Nelle relazioni che contano, fa flop. Con un tasso di infelicità molto superiore ai sereni, anche se si illude di essere felice per i momentanei sussulti di orgoglio che prova nel postare perfidie. Secondo, è un distruttore di se stesso, come dimostra l’osservazione di queste persone nel tempo: con bilanci di fallimento affettivo, esistenziale, professionale sempre più pesanti col passare degli anni. In effetti, dicono gli psicologi comportamentisti che hanno studiato le motivazioni che sottendono la distruttività verbale, che può preludere a quella fisica, il denigratore attacca anche se stesso. Nel profondo si percepisce come un fallito, dominato dal sentimento di rabbia che impedisce di concentrarsi, di apprendere, di pensare con calma, per scegliere e cambiare. In questo senso, la denigrazione sistematica può diventare un lento suicidio: perché erode l’energia vitale, minando alla base la possibilità di costruirsi un futuro diverso e migliore.
Per cambiare (ammesso che il denigratore sistematico lo voglia fare), i comportamentisti raccomandano: 1. metti nero su bianco le tue critiche, per renderti conto di quanto esageri; 2. analizzale, per capire quanto spesso siano generiche, o lanciate così a sproposito da essere solo puri insulti; 3. mettiti nei panni di quelli che oltraggi.
Ci sono situazioni che facilitano la denigrazione? Il gruppo (reale o virtuale, sui social) è la più frequente, per quel conformismo che porta a sentirsi più accettati se si dice una perfidia che faccia ridere, che stuzzichi un piacere, più o meno sadico, in cui il pettegolezzo sconfina nel dileggio condiviso, fino all’umiliazione e all’oltraggio. Con effetti drammatici per i più deboli, per i quali il gioco può essere fatale, dal punto di vista emotivo se non addirittura esistenziale. Il denigratore potrebbe cambiare? Sì, quando si rende conto che la diffamazione è un boomerang, anche quando è anonima, perché rivolge il veleno psichico contro se stessi. E perché è il termometro di una frustrazione, di un’infelicità di fondo, che è più saggio e vincente affrontare in altro modo.
Qual è l’identikit del diffamatore? Ecco alcuni denominatori comuni: un alto grado di frustrazione, innanzitutto. Chi è contento e soddisfatto ha altro da fare. L’incapacità di realizzarsi: se l’avesse, spenderebbe le proprie energie in modo costruttivo. E sarebbe più felice. Una bassa autostima, che si illude di alzare, cercando di abbassare il valore degli altri. Una scarsa capacità di provare gioia per gli aspetti positivi dell’esistenza: il picco della soddisfazione, il denigratore lo prova nel diffamare. Può fare del male? Molto. Può essere distruttivo fino a istigare al suicidio? Purtroppo sì: basti vedere i suicidi di adolescenti messi alla berlina sui social media. Può istigare all’omicidio? Sì: dal prototipo Jago, quanti degli assassini “per passione” non sono stati istigati da calunnie e diffamazioni verso la propria donna?
Ma ecco il punto: il denigratore fa del male a se stesso, anche se l’impunità dell’anonimato fa credere di essere immuni e intoccabili? Sì, molto. Innanzitutto, chi diffama sui social media di regola è un distruttivo anche nei rapporti interpersonali. Può aggregarsi temporaneamente ai suoi pari, ed esaltarsi condividendo l’oltraggio. Ma resta un solo. Nelle relazioni che contano, fa flop. Con un tasso di infelicità molto superiore ai sereni, anche se si illude di essere felice per i momentanei sussulti di orgoglio che prova nel postare perfidie. Secondo, è un distruttore di se stesso, come dimostra l’osservazione di queste persone nel tempo: con bilanci di fallimento affettivo, esistenziale, professionale sempre più pesanti col passare degli anni. In effetti, dicono gli psicologi comportamentisti che hanno studiato le motivazioni che sottendono la distruttività verbale, che può preludere a quella fisica, il denigratore attacca anche se stesso. Nel profondo si percepisce come un fallito, dominato dal sentimento di rabbia che impedisce di concentrarsi, di apprendere, di pensare con calma, per scegliere e cambiare. In questo senso, la denigrazione sistematica può diventare un lento suicidio: perché erode l’energia vitale, minando alla base la possibilità di costruirsi un futuro diverso e migliore.
Per cambiare (ammesso che il denigratore sistematico lo voglia fare), i comportamentisti raccomandano: 1. metti nero su bianco le tue critiche, per renderti conto di quanto esageri; 2. analizzale, per capire quanto spesso siano generiche, o lanciate così a sproposito da essere solo puri insulti; 3. mettiti nei panni di quelli che oltraggi.
Ci sono situazioni che facilitano la denigrazione? Il gruppo (reale o virtuale, sui social) è la più frequente, per quel conformismo che porta a sentirsi più accettati se si dice una perfidia che faccia ridere, che stuzzichi un piacere, più o meno sadico, in cui il pettegolezzo sconfina nel dileggio condiviso, fino all’umiliazione e all’oltraggio. Con effetti drammatici per i più deboli, per i quali il gioco può essere fatale, dal punto di vista emotivo se non addirittura esistenziale. Il denigratore potrebbe cambiare? Sì, quando si rende conto che la diffamazione è un boomerang, anche quando è anonima, perché rivolge il veleno psichico contro se stessi. E perché è il termometro di una frustrazione, di un’infelicità di fondo, che è più saggio e vincente affrontare in altro modo.
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