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Dire no alla vita: motivazioni e prevenzione del suicidio fra i giovani

09/04/2010

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Gentile Professoressa, ho letto con profondo turbamento un suo recente articolo su una donna che, dopo aver perso il figlio per suicidio, ha deciso di togliersi anche lei la vita. Qualche giorno fa, mia moglie e io ci chiedevamo che cosa spinga un ragazzo o una ragazza di quell’età, con tutta la vita davanti, a compiere un gesto così tragico e irrimediabile... Si capisce che poi una madre sia talmente stravolta dal dolore da farla finita! Che cosa si può fare per prevenire simili tragedie? A me pare anche che i suicidi fra i giovani siano in aumento, rispetto a qualche anno fa: è una percezione corretta, o è solo aumentata la mia sensibilità al problema? E perché gli uomini di chiesa sono così severi sull’argomento, al punto di dire che chi si uccide è destinato all’inferno? Scusi le tante domande un po’ alla rinfusa, ma è un tema che veramente mi interessa molto, perché non vorrei mai dovermi trovare, un giorno, a piangere un figlio per non aver saputo capire in tempo la sua disperazione”.
Luigi (Udine)
Gentile signor Luigi, riprendo volentieri questo tema drammatico perché il suicidio di un figlio è davvero l’esperienza di dolore più devastante che un genitore possa provare, una sorta di “punto di non ritorno” oltre il quale ogni motivazione razionale o emotiva di attaccamento alla vita può rivelarsi inadeguata, come nel caso della sfortunata signora di cui parlavo in quell’articolo (Il suicidio di un figlio, dolore che annienta la vita).

E' vero che i suicidi fra gli adolescenti sono in aumento?

In Italia no, almeno secondo i più recenti dati Istat. Il “Portale dell’infanzia e dell’adolescenza” (http://www.minori.it) sottolinea come, nel 2008, nella fascia di età dai 14 ai 17 anni, si sia passati da 1,59 suicidi ogni 100 mila abitanti nel 2003 (25 maschi e 14 femmine) a 1,06 ogni 100 mila abitanti nel 2008 (17 maschi e 14 femmine). I dati relativi agli adolescenti, inoltre, risultano molto bassi rispetto al totale nazionale, che nel 2008 conta 3.361 suicidi (di cui 835 femmine). La regione che nel 2008 ha avuto il maggior numero di suicidi fra i teenager è la Lombardia: 5 su un totale di 404 nella regione; la provincia di Trento è invece quella con i numeri più bassi: nessun suicidio fra i giovanissimi, su un totale regionale di 9. Secondo altri dati Istat, aggiornati però solo al 2007, i suicidi sono la quarta causa di morte degli adolescenti, dopo gli incidenti stradali, i tumori, l’annegamento e le cause accidentali.
Anche lo “Youth Suicide Prevention Program” (Washington State, USA) afferma che i casi di suicidio – dopo un’allarmante impennata registrata negli anni Settanta e Ottanta – sono da tempo in costante riduzione: e sottolinea come la percezione di un loro aumento sia in realtà determinata dal fatto che oggi se ne parla molto più che in passato. Ciò non toglie che, come ricorda il “Suicide Prevention Project”, del Virginia Department of Health (USA), milioni di persone tentino il suicidio ogni anno in tutto il mondo: numeri drammatici che non consentono alcuna banalizzazione del fenomeno e devono spingerci a sviluppare strategie preventive sempre più efficaci.

Che cosa spinge un giovane al suicidio?

Le cause sono molteplici: l’assenza di affetti familiari e di solide amicizie, la mancanza di passioni forti e positive (lo sport, la musica, la lettura, un animale da accudire, una qualche forma di volontariato), la sfiducia nel domani, l’incapacità di dirigere l’energia vitale – e anche l’aggressività, intesa come forza propulsiva – su un progetto esistenziale di qualità, per il quale valga la pena fare scelte definitive, e affrontare fatiche e sacrifici. Tutte situazioni che, dal disagio, possono portare alla franca depressione e da questa alla disperazione, intesa proprio nel senso etimologico di “perdita di ogni speranza”.

Qual è il denominatore comune di questi fattori?

E’ la radicale mancanza d’amore, dato e soprattutto ricevuto. Finché ci sentiamo amati, e proviamo a nostra volta un sentimento d’amore, siamo portati a credere nella vita e ad affrontare le difficoltà, anche le più gravi, con forza, coraggio e fiducia. Ma se non crediamo all’amore degli altri per noi, se non percepiamo l’amore degli altri su di noi, a cominciare dai nostri genitori, allora diveniamo fragili e insicuri, e non riusciremo mai a trovare un punto di equilibrio stabile: l’infelicità di un momento potrà sempre diventare paradigma della vita e, come tale, determinare una scelta irreversibile di morte. Giovanni Bosco, un grande educatore dell’Ottocento, soleva dire: «Non basta amare i giovani: bisogna che i giovani sappiano di essere amati».

Da dove nasce questa ferita?

Soprattutto dal fatto che, in molti casi e almeno in Occidente, la famiglia sta perdendo la sua tradizionale capacità di essere il centro degli affetti dei bambini e degli adolescenti. Lasciati troppo presto soli al nido o alle materne, affidati alle baby sitter, con madri e padri impegnati nel lavoro per molte ore al giorno, e i nonni non di rado lontani, i piccoli rischiano di subire una frustrazione sostanziale del loro bisogno di attaccamento affettivo, una frustrazione che poi, nelle personalità più vulnerabili, può esplodere violentemente nell’adolescenza.
Certo, i cambiamenti economici e sociali in atto non aiutano a migliorare la situazione perché, da un lato, obbligano entrambi i genitori a lavorare per far quadrare il bilancio familiare e, dall’altro, diffondono un individualismo e una sostanziale mancanza di valori che fanno sentire – anzi, rendono obiettivamente – più soli, soprattutto nell’età dell’adolescenza. Le conseguenze sono poi rese a volte ancora più drammatiche dall’uso di alcol o droga, sostanze che in apparenza leniscono il “male di vivere” ma che, in realtà, indeboliscono ulteriormente la capacità di reazione alle avversità.

E' vero che certi adolescenti arrivano ad ammirare i coetanei che si suicidano?

Purtroppo è vero, e questo è un ulteriore elemento di allarme, al di là dell’andamento dei dati statistici. Che cosa porta un ragazzino ad applaudire un gesto così distruttivo, e oltretutto perdente? E’ probabile che anche chi manifesta questi sentimenti abbia provato, o provi, il desiderio di farla finita. Ma certe sconcertanti dichiarazioni nascondono anche l’assenza di una percezione realistica della morte: come se uccidersi fosse una delle tante opzioni possibili, e non la negazione radicale di ogni opzione. In ogni caso, sono un semaforo rosso che ci deve allertare su una condizione di vulnerabilità psichica profonda e complessa, da diagnosticare e curare in modo tempestivo e appropriato.

E' possibile sventare il suicidio di un figlio o un amico in difficoltà?

Sì, è possibile, se sappiamo coglierne i segni premonitori, se non li banalizziamo, se non tacitiamo il senso di inquietudine che ci assale, apparentemente senza motivo, quando un familiare, un amico, un allievo sembra estraniarsi da noi e dalla vita.
Il fatto che qualcuno che ci è caro possa suicidarsi ci sembra impossibile, un’eventuale del tutto marginale e che si verifica solo nella vita di altri. Non solo: è un pensiero disturbante che eliminiamo quasi automaticamente prima che si affacci alla coscienza. In realtà è meglio tenere sempre vigili le “antenne” del cuore: perché non sappiamo quanto a fondo la disperazione possa colpire, quanto la sfiducia nel futuro possa destabilizzare anche persone fino a quel momento apparentemente serene.

Che cosa si può fare in concreto?

La cosa più importante è saper ascoltare, soprattutto con il cuore, perché solo così si può avvertire l’angoscia del ragazzo. E’ poi fondamentale valutare, con discrezione, la qualità effettiva della sua vita: come va a scuola, quanto dorme, se ha orari regolari, se beve o possa far uso di droghe, che amici frequenta, se a casa parla volentieri o è sempre silenzioso, chiuso, irritabile. Se ha un amico o un’amica veri, se parla con entusiasmo o no di che cosa farà da grande, se pratica uno sport o un hobby che lo appassioni. Insomma, se si proietta verso il futuro oppure no. Quasi sempre gli adolescenti a rischio di suicidio vivono, e si vivono, come dei falliti: il loro orizzonte di vita si è già ristretto e impoverito molto prima dell’ultimo gesto.

Perché la religione è così poco comprensiva sul tema del suicidio?

Questa affermazione non è del tutto vera o, per lo meno, ritrae solo uno dei possibili esiti delle religioni. Articolerei il discorso su due piani distinti, uno particolare e uno generale. Dal punto di vista specifico della Chiesa cattolica, prevalente in Italia, il suicidio è contrario al giusto amore di sé, all’amore del prossimo e all’amore di Dio (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 2281). Al tempo stesso, la Chiesa riconosce che «gravi disturbi psichici, l’angoscia e il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida» (CCC 2282) e che «non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte» (CCC 2283).
Ci troviamo quindi di fronte, molto più che in passato, a una severità sfumata dalla speranza: sono sempre più frequenti, per esempio, i casi in cui al suicida non viene più negato il funerale religioso. Ma l’apertura, per così dire, è ancora molto prudente e il testo del catechismo riflette un’evoluzione del pensiero canonico che in futuro potrebbe portare a definizioni più nettamente ispirate dalla misericordia. In questo senso, e da laica, io vado oltre, e credo che quella povera donna sia ora nella pace, nell’abbraccio del figlio e di quel Dio d’amore in cui ha creduto per tutta la vita.

E sul piano generale?

Qui il discorso si allarga a ogni possibile forma di esperienza spirituale. Se una religione si afferma come sistema di rigide regole morali, associate ai concetti di colpa, giudizio ed espiazione, allora effettivamente ha ben poco di umano da dire a chi, nell’angoscia e nella solitudine, varca il confine estremo della disperazione. Se invece una religione si propone come testimonianza di una Presenza altra da noi, che ci ha tratto alla vita e ci ama per quello che siamo, allora di fronte alla morte per suicidio sa che solo un silenzio colmo di rispetto e compassione può essere di una qualche consolazione per chi resta, e che tutta la disperazione che ha portato a quel gesto irrevocabile può essere raccolta, trasfigurata e in qualche modo riscattata in modi a noi sconosciuti. Un bellissimo salmo contenuto nella Bibbia dice: «I passi del mio vagare tu li hai contati, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli» (Sal 55,9): credo che solo una religione capace di un abbandono così fiducioso possa anche dire una parola efficace sul dolore e sulla morte.

I centri di prevenzione: una risorsa preziosa in tutto il mondo

Esiste una possibilità di uscita dal tunnel di dolore in cui il suicidio conduce tanti giovani? In Svezia e Norvegia, in cui il tasso di suicidi è elevato, sono stati istituiti centri specializzati e gruppi di autoaiuto, per esempio per i figli dei suicidi, o i loro coniugi, e per gli amici di un adolescente che d’impulso abbia chiuso con la vita.
Una delle iniziative più importanti a livello extraeuropeo è lo “Youth Suicide Prevention Program”, con sede nello stato di Washington, USA, il cui sito è ricchissimo di indicazioni e consigli sulla prevenzione (www.yspp.org).
In Italia questi centri specializzati sono meno diffusi. Meritano di essere segnalati il Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone (www.ass6.sanita.fvg.it) e il “Centro per lo studio e la prevenzione dei disturbi dell’umore e del suicidio”, gestito dal “Dipartimento di neuroscienze, salute mentale e organi di senso” (NESMOS) dell’Università La Sapienza di Roma (www.prevenireilsuicidio.it).

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