La ragione per rallentare ritmi troppo serrati può nascere da una crisi esistenziale: una malattia grave, seppur ben superata, porta a riconsiderare le priorità dell’esistenza. La percezione di essere in una seconda vita le porta a chiudere i bilanci della prima, quali essi siano: perché non intendono fare della seconda una grigia ripetizione della prima. E allora lavoro sì, valorizzando quello che si è già costruito, ma senza porsi altri obiettivi stressanti e difficili da perseguire: basta carriera.
Anche molte single, carrieriste per destino, possono arrivare a questa scelta: meglio avere più tempo per sé, per lo sport, i viaggi, un film, un massaggio, una cena con gli amici, un corso di ballo. «Sia benedetto il mio cancro – mi ha detto una signora – che mi ha fatto capire che potevo lasciare la mia ossessione per la carriera e vivere molto più felice. Mi ero ingabbiata da sola, come se arrivare ai vertici fosse il senso della vita. Poi mi sono resa conto che troppa competizione mi stava uccidendo. E’stato difficile, ma adesso mi sento più libera e più contenta di prima».
Per altre è la nascita di un nipotino, figlio di fratelli, o di figli avuti in giovane età e seguiti a strattoni, in parallelo al lavoro. Improvvisamente (ri)avere un cucciolo per casa ritara le priorità. Chi ha avuto figli propri, non intende ripetere gli stessi errori: vuole gustarsi il tempo, il piacere di veder sbocciare un nuovo sguardo sulla vita. Quante donne mi dicono: «L’evento più felice degli ultimi dieci anni è la nascita della mia nipotina. Tutto il resto passa in secondo piano, anche la carriera. Basta. Ci ho dedicato trent’anni, quel che ho fatto ho fatto. Adesso mi godo finalmente la famiglia. Anche perché, per arrivare in vetta, dovrei ancora lottare tanto: francamente non ne ho più voglia».
Altre ancora fanno un bilancio energetico, indipendentemente da eventi eclatanti, positivi o negativi. Valutano dove sono arrivate, quanto è costato, e quanto ci vorrebbe per arrivare in cima. «Sì, è brutto lasciare incompiuto un progetto, mi dicono. Ma è più brutto continuare a lottare, massacrando le energie migliori, e bruciando tante altre opportunità di gustarsi la vita, solo per intestardirsi ad arrivare in cima». Ci vuole coraggio anche per prenderne atto. In molti ambienti il maschilismo impera e rende durissima e impari la competizione per i vertici. Soprattutto per le donne che non si muovono nel nome di un uomo. Lasciare la competizione, continuando a lavorare, può essere una scelta di sopravvivenza, di maturità e/o di qualità di vita personale. Dal punto di vista sociale, spero sia solo una staffetta. Quando la donna che si è fatta da sola pensa «Io sono arrivata fin qui, con le mie forze. Adesso passo il testimone: chissà che le prossime generazioni, con lo stesso impegno, riescano ad arrivare in vetta. Per me basta così: adesso mi godo la vita» è una resa perdente ben motivata? E’ giusto? E’ saggio? E che cosa significa per la nostra società?
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