Donne con sindrome di Down o mentalmente ritardate usate come kamikaze in Iraq. Se il dato è vero, apre scenari ancora più inquietanti sulla natura dell’estremismo islamico. Rispetto a precedenti coinvolgimenti di donne in atti terroristici, quest’ultima scelta di candidate alla morte presenta un elemento del tutto nuovo: l’impossibilità del consenso ad un gesto estremo, quale il suicidio e l’omicidio di decine di innocenti, oltre al ferimento devastante di molti altri. Più di 70 persone sono state uccise negli ultimi due attentati condotti a Bagdad, in due affollatissimi mercati, il Suq Al Ghazil e l’Al Jedida, da donne kamikaze che, proprio per le loro compromesse capacità mentali, non erano in grado di capire nemmeno per quale atroce destino fossero state selezionate. Riempite di esplosivo e fatte saltare in aria, con un comando a distanza, una volta raggiunto il posto del mercato con la massima densità di pubblico, e quindi la massima efficacia distruttiva.
Due aspetti emergono più forti, tra i tanti che gesti così sanguinari comportano. Il primo riguarda l’aspetto tragicamente eugenetico di questa operazione. In un sol colpo, si eliminano persone malate, reclutate con cinismo e crudeltà, e si porta avanti una guerra civile sanguinaria. Perché questa scelta? E’ possibile che il numero di candidati a diventare kamikaze sia in declino. E allora questo reclutamento appare come un tentativo in extremis di portare avanti a tutti i costi un piano di destabilizzazione civile e di devastazione che ha già fatto migliaia di morti. Oppure, in modo ancora più cinico, i vertici del fondamentalismo islamico possono essere arrivati a considerare l’opportunità di usare portatori di morte inconsapevoli, di rango irrilevante, dal punto di vista sociale, data la loro natura di donne per di più affette da gravi handicap mentali, per utilizzare invece giovani estremisti di rango primario, in quanto maschi e sani, in atti di guerriglia per i quali servono meglio da vivi.
Il secondo problema riguarda più in generale le motivazioni che sottendono l’uso di donne kamikaze nella strategia delle bombe umane portata avanti nelle pianificazioni terroristiche. Le prime candidate sono state donne che avevano perso i loro uomini in precedenti azioni di guerriglia. Senza più supporto e senza identità sociale, sono state convinte che a loro non restava altro se non immolarsi, per seguire le orme dei loro uomini e, forse, meritare un premio nell’aldilà. Le seconde, in gruppo minoritario, sono state donne colpevoli di avere tradito i loro mariti, o comunque di aver avuto atteggiamenti considerati non consoni al ruolo di una buona moglie, secondo i severi codici integralisti. In tal caso, il destino kamikaze è stato offerto come mezzo di riabilitazione sociale, di redenzione quasi, di fronte al quale non c’erano alternative, se non la lapidazione o comunque una fine ignominiosa. Un sacrificio di sé che è stato imposto anche a donne con figli piccoli, che certo tutto avrebbero fatto fuorché suicidarsi, lasciando orfani i loro bambini, per uccidere tanti altri innocenti. Il terzo gruppo contiene donne che forse hanno davvero aderito ad un progetto così distruttivo, come mezzo in sé grandioso per uscire a qualunque costo da vite vissute come irrilevanti, pesanti, dolorose o comunque senza sbocchi che accendessero ancora la loro voglia di vivere. Il quarto, il più recente, il più inquietante, riguarda l’uso di donne con handicap mentali, in cui, come si diceva, non solo viene meno ogni minima possibilità di comprensione, di adesione e quindi, di consenso, ma con le quali viene di fatto attuata una scelta eugenetica raccapricciante.
Donne in diverso stato di debolezza, di drammatica asimmetria sociale e contrattuale. Accomunate da una sostanziale e irrimediabile infelicità. Vittime, come i tanti innocenti trascinati con sé alla morte, o lesionati per sempre, amputati, accecati e straziati. Carnefici, come tutti i portatori di morte di ogni guerra, uomini e donne, quando siano coinvolti a combattere per cause di cui si è perso o non si è mai percepito il senso. Carnefici disperate, perché in gran parte costrette – in modo diretto e indiretto – ad un ruolo di assassine. Ed è questo ruolo di portatrici di morte ad attenuare o cancellare la solidarietà, la pena per l’infamia cui sono costrette, il dolore per morti senza conforto e senza scampo.
Ormai, per noi occidentali, si è creata una sorta di assuefazione indifferente alle quotidiane notizie di stragi in Iraq o Afganistan o a Gaza. “Purché non si facciano saltare in aria da noi”, è il pensiero minimalista che al massimo ci affiora nella mente. Lo stesso atteggiamento sordo e indifferente si era creato, in passato, di fronte ad altre stragi di cui pure si sapeva e si faceva finta di nulla. Dai campi di sterminio nazisti ai gulag sovietici, solo per citare drammatici eventi della storia recente che hanno fatto milioni di morti nell’indifferenza dell’Europa. E’ difficile pensare ai problemi degli altri quando non si sa nemmeno affrontare in modo adeguato a casa propria piccoli e grandi problemi di ordine pubblico, di sicurezza ma anche di solidarietà sociale. Eppure è proprio ripartendo da un senso etico che resti sensibile al destino di singole vite disperate e sole che si resterà vigili sulle più grandi insidie che minano il destino di questa avvilita Italia e di questo mondo oltraggiato.
Due aspetti emergono più forti, tra i tanti che gesti così sanguinari comportano. Il primo riguarda l’aspetto tragicamente eugenetico di questa operazione. In un sol colpo, si eliminano persone malate, reclutate con cinismo e crudeltà, e si porta avanti una guerra civile sanguinaria. Perché questa scelta? E’ possibile che il numero di candidati a diventare kamikaze sia in declino. E allora questo reclutamento appare come un tentativo in extremis di portare avanti a tutti i costi un piano di destabilizzazione civile e di devastazione che ha già fatto migliaia di morti. Oppure, in modo ancora più cinico, i vertici del fondamentalismo islamico possono essere arrivati a considerare l’opportunità di usare portatori di morte inconsapevoli, di rango irrilevante, dal punto di vista sociale, data la loro natura di donne per di più affette da gravi handicap mentali, per utilizzare invece giovani estremisti di rango primario, in quanto maschi e sani, in atti di guerriglia per i quali servono meglio da vivi.
Il secondo problema riguarda più in generale le motivazioni che sottendono l’uso di donne kamikaze nella strategia delle bombe umane portata avanti nelle pianificazioni terroristiche. Le prime candidate sono state donne che avevano perso i loro uomini in precedenti azioni di guerriglia. Senza più supporto e senza identità sociale, sono state convinte che a loro non restava altro se non immolarsi, per seguire le orme dei loro uomini e, forse, meritare un premio nell’aldilà. Le seconde, in gruppo minoritario, sono state donne colpevoli di avere tradito i loro mariti, o comunque di aver avuto atteggiamenti considerati non consoni al ruolo di una buona moglie, secondo i severi codici integralisti. In tal caso, il destino kamikaze è stato offerto come mezzo di riabilitazione sociale, di redenzione quasi, di fronte al quale non c’erano alternative, se non la lapidazione o comunque una fine ignominiosa. Un sacrificio di sé che è stato imposto anche a donne con figli piccoli, che certo tutto avrebbero fatto fuorché suicidarsi, lasciando orfani i loro bambini, per uccidere tanti altri innocenti. Il terzo gruppo contiene donne che forse hanno davvero aderito ad un progetto così distruttivo, come mezzo in sé grandioso per uscire a qualunque costo da vite vissute come irrilevanti, pesanti, dolorose o comunque senza sbocchi che accendessero ancora la loro voglia di vivere. Il quarto, il più recente, il più inquietante, riguarda l’uso di donne con handicap mentali, in cui, come si diceva, non solo viene meno ogni minima possibilità di comprensione, di adesione e quindi, di consenso, ma con le quali viene di fatto attuata una scelta eugenetica raccapricciante.
Donne in diverso stato di debolezza, di drammatica asimmetria sociale e contrattuale. Accomunate da una sostanziale e irrimediabile infelicità. Vittime, come i tanti innocenti trascinati con sé alla morte, o lesionati per sempre, amputati, accecati e straziati. Carnefici, come tutti i portatori di morte di ogni guerra, uomini e donne, quando siano coinvolti a combattere per cause di cui si è perso o non si è mai percepito il senso. Carnefici disperate, perché in gran parte costrette – in modo diretto e indiretto – ad un ruolo di assassine. Ed è questo ruolo di portatrici di morte ad attenuare o cancellare la solidarietà, la pena per l’infamia cui sono costrette, il dolore per morti senza conforto e senza scampo.
Ormai, per noi occidentali, si è creata una sorta di assuefazione indifferente alle quotidiane notizie di stragi in Iraq o Afganistan o a Gaza. “Purché non si facciano saltare in aria da noi”, è il pensiero minimalista che al massimo ci affiora nella mente. Lo stesso atteggiamento sordo e indifferente si era creato, in passato, di fronte ad altre stragi di cui pure si sapeva e si faceva finta di nulla. Dai campi di sterminio nazisti ai gulag sovietici, solo per citare drammatici eventi della storia recente che hanno fatto milioni di morti nell’indifferenza dell’Europa. E’ difficile pensare ai problemi degli altri quando non si sa nemmeno affrontare in modo adeguato a casa propria piccoli e grandi problemi di ordine pubblico, di sicurezza ma anche di solidarietà sociale. Eppure è proprio ripartendo da un senso etico che resti sensibile al destino di singole vite disperate e sole che si resterà vigili sulle più grandi insidie che minano il destino di questa avvilita Italia e di questo mondo oltraggiato.