“Gentile professoressa, qualche settimana fa ho letto con molto interesse un suo articolo sul doping. Secondo lei, quali motivazioni profonde possono spingere un atleta a fare uso di queste sostanze, a rischio della propria salute e del proprio onore sportivo? Ed esistono cure che permettano di disintossicarsi e di smettere?”.
Nedo S. (Firenze)
Nedo S. (Firenze)
Gentile signor Nedo, le rispondo molto volentieri, perché quella del doping è davvero una piaga sanitaria e sociale che rischia di estendersi a tutti gli ambienti sportivi, dai dilettanti ai professionisti. Le motivazioni al doping possono essere “espressive” o “difensive”.
Che cosa sono le motivazioni espressive?
Sono quelle che intervengono ai livelli medio-alti e alti della performance atletica, per potenziarla ulteriormente e garantire un successo remunerativo in termini di vittorie, immagine e guadagni. Proprio per questo motivo si accompagnano spesso a strategie molto sofisticate per farla franca: basti pensare al ciclista statunitense Lance Armstrong, che è riuscito a dribblare ben 250 controlli in una lunga carriera, prima di subire una squalifica retrospettiva e un’onta davvero planetaria.
Che cosa aveva usato Armstrong?
E’ stato dimostrato che, negli anni, aveva assunto eritropoietina (una sostanza che serve ad aumentare il numero dei globuli rossi e quindi l’ossigenazione muscolare), dopanti del sangue, steroidi e l’ormone della crescita (Growth Hormone, GH), che ha un effetto anabolizzante sui muscoli. Quest’ultimo è difficile da scoprire per la forte somiglianza con il GH endogeno, la secrezione pulsatile, ossia non costante, e la forte variabilità di livelli fra una persona e l’altra.
E le motivazioni difensive?
Si parla di motivazione difensiva quando la spinta ultima non è agonistica e legata al successo, ma correlata a un’inadeguata immagine corporea, a disistima, a un profondo senso di frustrazione e fallimento: sentimenti negativi spesso radicati più nella vita privata dell’atleta, professionista o amatore che sia, che non nelle vicende sportive vere e proprie.
E' possibile liberarsi dal doping?
Sì, ma occorre una motivazione forte: una condizione che si verifica, per esempio, quando si vuol tornare a gareggiare dopo essere stati scoperti, quando si è al termine della carriera, o quando si verifichino problemi di salute acuti o cronici, anche sul fronte sessuale. La terapia è invece resa molto difficile dalla banalizzazione del comportamento illecito, con affermazioni del tipo «Sto benissimo, non ho nessun problema di salute», «E’ tutto terrorismo», «Non faccio del male a nessuno». Per inciso, si fa del male, eccome, rubando la vittoria a chi gareggia pulito!
Come ci si cura?
Le strategie di intervento sono farmacologiche e psicoterapeutiche, e possono includere tecniche di meditazione. Purtroppo gli studi sulla loro efficacia sono pochi. I rischi di cronicizzazione del comportamento illecito restano quindi alti, soprattutto per effetto del sistema di ricompensa di cui parlavo nell’articolo che lei cita (e disponibile al link sotto indicato): se si vince una gara dopo aver usato un anabolizzante, e si perde quella in cui non lo usa, si crea molto rapidamente un meccanismo condizionato di dipendenza, per cui non si riuscirà più a competere se non ci si è dopati. Questo è un rischio particolarmente forte negli adolescenti, il cui cervello, estremamente plastico, tende a formare circuiti neuronali che si consolidano come i binari di un treno, condizionando il comportamento e le decisioni. La conclusione, quindi, è una sola: meglio non cominciare nemmeno.
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