La donna è davvero disperata. Lui ha le sue ragioni, che personalmente capisco molto bene. C’è chi, con un tumore, ha bisogno dell’affetto delle persone amate, ancora più di prima, e chi preferisce “compattarsi” in solitudine. Tace, prende ferie e si fa operare in un’altra città. Preferisce parlare poco, con i medici, e solo dell’essenziale delle cure, e poi riflettere. Perché si può scegliere il silenzio e la solitudine? Per confrontarsi con il demone che ti divora dentro, e lo ha già fatto per mesi o anni, senza che te ne accorgessi: perché è stato insidioso e subdolo lui, o perché tu hai tacitato tutti i segni che il corpo mandava, sempre impegnato a correre dietro ad altro? Come è stato possibile, non aver sentito, non aver intuito un così pervadente tradimento del corpo? Sceglie la solitudine, per confrontarsi da solo con il degrado che chemio e radioterapia infliggono al suo corpo, la perdita di efficienza e di forza, la perdita di integrità e di dignità fisica, e il rischio concreto di morte. «In solitudine, ci si prepara meglio. A tutto», pensa chi, come lui, cerca il silenzio. Tuttavia, questo bisogno di solitudine cozza contro l’altro immenso bisogno che ogni malattia grave comporta: il bisogno di presenza, di amore, di conforto, che riduce l’angoscia di morte. Riconosciuta, o negata, e cacciata nei sotterranei dell’anima. A volte, il dire: «Lasciami, voglio stare solo» è un modo per dire, in realtà: «Resta con me, non lasciarmi solo proprio adesso».
Che fare? Si può stare vicini, in modo molto discreto e rispettoso. Per esempio, scrivendo lettere d’amore. Rigorosamente a mano. Lettere affettuose, senza critiche alla solitudine, senza amarezze, senza rimpianti. Lettere che abbiano il profumo dei ricordi belli condivisi, delle emozioni che ci hanno arricchiti insieme e resi più vicini. Si può inviare un libro che abbia un senso: quando ci si conosce bene, è più facile scegliere un racconto, o un romanzo, che parli al cuore, anche a distanza. O un film. Oppure un fiore, di tanto in tanto. Nel contempo, è preziosa una riflessione su di sé: senza sentirsi rifiutati, perché il senso di quella scelta non è questo. La solitudine, di fronte a una malattia grave e potenzialmente mortale, non è contro l’altro, ma per se stessi. Davvero per compattarsi, per riprendere un senso compiuto di sé, per pensare alle cose ultime, per prepararsi a una guerra dura che può lasciarci sul terreno. Al contempo, è una prova difficile stare vicini alla persona amata che affronta una malattia severa, devoti e rispettosi, in punta di piedi, nell’ombra, presenti da lontano, senza parlare. Sono queste esperienze difficili che ci mettono in discussione, ci fanno soffrire e ci fanno crescere. Che fanno sbocciare la nostra consapevolezza. E la nostra umanità.
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