Che cosa resta di noi, turisti festosi, dopo i lunghi e ridenti ponti di aprile? Che cosa resta di noi, dopo la coraggiosa apertura al pubblico di molte oasi italiane? Purtroppo, una spaventosa, inimmaginabile quantità di immondizia. Sparsa. Indistruttibile. Insostenibilmente brutta. Capillarmente distribuita a lordare ogni angolo di bellezza ancora sopravvissuta a fatica alle ondate di turismo precedenti.
Sembra che molti, troppi, tra gli umani, provino un segreto piacere nel lasciare tracce indelebili del loro passaggio. Tracce in linea con la loro insipienza. Non tutti, certo. Anzi, molti tra noi viaggiano sempre con il sacchetto dentro lo zaino, o il cestino da pic-nic, per riporvi carte, resti di cibo, lattine, che riportano a casa o che lasciano accuratamente dentro gli appositi cassonetti. Sfortunatamente, l’indistruttibilità di molte immondizie fa sì che la traccia lasciata da un cretino marchi il territorio molto più del silenzioso passaggio di chi ha cura di camminare solo sui sentieri, per non calpestare l’erba, lieta dove non passa l’uomo, come diceva Ungaretti.
Aspettarsi che a rimuovere questa lordura, che cresce in misura geometrica, pensino lo Stato o i Comuni, o la Regione, è impensabile. Anche perché sarebbe una costosissima fatica di Sisifo. Come invertire allora questa tendenza distruttiva che non accenna a ridursi, anzi? L’unica via è educare, per lo meno le giovani generazioni. Fino a far sì che siano i più piccoli i depositari, dentro la famiglia, e la società, di un’educazione al rispetto del giardino comune, che è il territorio libero di prati, boschi, costiere, maggesi, valli e montagne.
Come? Iniziando con una giornata dedicata all’educazione ecologica. Una giornata pragmatica, concreta. Niente discorsi. Niente chiacchiere compiaciute di politici e cerca-voti. No. Più semplice, e, soprattutto, efficace. Si potrebbe dividere il territorio “verde” di un comune in aree. Assegnarne poi ciascuna a una scuola, in proporzione al numero di alunni e di classi. I bambini, i ragazzi e i loro insegnanti dovrebbero ricevere congrui guanti e tutto il materiale per pulire. I più piccoli potrebbero essere affiancati dai genitori. O da un nonno. Un’allegra e disciplinata brigata che ritrovi il gusto di aver cuore per la bellezza.
Pragmaticamente, tutti a raccogliere cartacce e lattine, sacchetti di plastica e contenitori, separandoli per tipo. Tutti a pulire, con premio finale di una menzione al valor civile, alla classe, o scuola, che abbia restituito più bellezza alla zona assegnata. Se qualche genitore o insegnante, o qualche ragazzo più grande, fosse poi appassionato di falegnameria, ben venga anche il ripristino di panche e tavoli per il picnic. Solo pulendo personalmente ci si può render conto di che cosa significhi prendersi cura della terra violata. Solo così si possono capire tante cose: che pulire a fondo costa una fatica notevole, un dispendio di energie significativo. Che è naturale – dopo la prima baldanza – l’emergere di un sentimento di collera e rabbia per chi abbia sporcato. Forse, ci potrebbe essere un barlume di autocoscienza, al ricordo di quante volte sia stata la stessa mano a gettare la cartaccia, la lattina, la busta delle patatine o la carta del gelato. Forse, chissà, potrebbe sbocciare anche il giusto senso di orgoglio al vedere un’area ripulita, senza più tracce dolorose del passaggio dell’uomo. E, forse, a qualche classe potrebbe venire il gusto di dire: “A questo giardinetto, a questa area verde del quartiere, a questo prato pubblico fuori paese penseremo noi per tutto l’anno”. E sarebbe bello vedere un cartello che dica: questo verde è curato e tenuto lindo dalla terza B del liceo tale o della scuola media talaltra. O, ancora, dalle quinta B della scuola elementare Giovanni Pascoli, “con appassionata dedizione”. Con in chiaro i nomi dei bambini e dell’insegnante di riferimento che abbia preso a cuore quest’iniziativa. Sarebbe giusto che ci fosse una dichiarazione dell’“appartenenza” nella cura: perché c’è spazio per più consapevolezza, più orgoglio, più gusto, quando c’è un merito dichiarato e pubblicamente riconosciuto.
Educare alla sensibilità verso il mondo che ci ospita è un aspetto essenziale che la scuola dovrebbe perseguire: nell’educare all’empatia verso la natura, al rispetto della bellezza, alla cura delle piante, dei fiori, al rispetto della vita selvatica, c’è il nucleo più fecondo di un sentimento etico che può fiorire poi appieno nella prima giovinezza. Con basi tanto più solide quanto più la consapevolezza sia cresciuta pragmaticamente nel fare e nel gustare, in prima persona, la soddisfazione del risultato. Sia nella bellezza riconquistata, sia nel riconoscimento per il lavoro svolto. Il meccanismo di ricompensa emotiva è il più potente rinforzo che si possa dare a un comportamento sano.
Sta a noi adulti rendere la cura dei giardini, degli spazi verdi, delle piazze, un motivo di orgoglio, e di gioia. Sta a noi affinare nei piccoli la capacità di vedere la bellezza nelle piccole cose, in silenziosa simmetria di vulnerabilità, e desiderare di proteggerla. Anche da noi adulti, dai nostri astratti furori ecologisti, troppo spesso compiaciuti e inconcludenti, dalla nostra rassegnata, colpevole indifferenza.
Sembra che molti, troppi, tra gli umani, provino un segreto piacere nel lasciare tracce indelebili del loro passaggio. Tracce in linea con la loro insipienza. Non tutti, certo. Anzi, molti tra noi viaggiano sempre con il sacchetto dentro lo zaino, o il cestino da pic-nic, per riporvi carte, resti di cibo, lattine, che riportano a casa o che lasciano accuratamente dentro gli appositi cassonetti. Sfortunatamente, l’indistruttibilità di molte immondizie fa sì che la traccia lasciata da un cretino marchi il territorio molto più del silenzioso passaggio di chi ha cura di camminare solo sui sentieri, per non calpestare l’erba, lieta dove non passa l’uomo, come diceva Ungaretti.
Aspettarsi che a rimuovere questa lordura, che cresce in misura geometrica, pensino lo Stato o i Comuni, o la Regione, è impensabile. Anche perché sarebbe una costosissima fatica di Sisifo. Come invertire allora questa tendenza distruttiva che non accenna a ridursi, anzi? L’unica via è educare, per lo meno le giovani generazioni. Fino a far sì che siano i più piccoli i depositari, dentro la famiglia, e la società, di un’educazione al rispetto del giardino comune, che è il territorio libero di prati, boschi, costiere, maggesi, valli e montagne.
Come? Iniziando con una giornata dedicata all’educazione ecologica. Una giornata pragmatica, concreta. Niente discorsi. Niente chiacchiere compiaciute di politici e cerca-voti. No. Più semplice, e, soprattutto, efficace. Si potrebbe dividere il territorio “verde” di un comune in aree. Assegnarne poi ciascuna a una scuola, in proporzione al numero di alunni e di classi. I bambini, i ragazzi e i loro insegnanti dovrebbero ricevere congrui guanti e tutto il materiale per pulire. I più piccoli potrebbero essere affiancati dai genitori. O da un nonno. Un’allegra e disciplinata brigata che ritrovi il gusto di aver cuore per la bellezza.
Pragmaticamente, tutti a raccogliere cartacce e lattine, sacchetti di plastica e contenitori, separandoli per tipo. Tutti a pulire, con premio finale di una menzione al valor civile, alla classe, o scuola, che abbia restituito più bellezza alla zona assegnata. Se qualche genitore o insegnante, o qualche ragazzo più grande, fosse poi appassionato di falegnameria, ben venga anche il ripristino di panche e tavoli per il picnic. Solo pulendo personalmente ci si può render conto di che cosa significhi prendersi cura della terra violata. Solo così si possono capire tante cose: che pulire a fondo costa una fatica notevole, un dispendio di energie significativo. Che è naturale – dopo la prima baldanza – l’emergere di un sentimento di collera e rabbia per chi abbia sporcato. Forse, ci potrebbe essere un barlume di autocoscienza, al ricordo di quante volte sia stata la stessa mano a gettare la cartaccia, la lattina, la busta delle patatine o la carta del gelato. Forse, chissà, potrebbe sbocciare anche il giusto senso di orgoglio al vedere un’area ripulita, senza più tracce dolorose del passaggio dell’uomo. E, forse, a qualche classe potrebbe venire il gusto di dire: “A questo giardinetto, a questa area verde del quartiere, a questo prato pubblico fuori paese penseremo noi per tutto l’anno”. E sarebbe bello vedere un cartello che dica: questo verde è curato e tenuto lindo dalla terza B del liceo tale o della scuola media talaltra. O, ancora, dalle quinta B della scuola elementare Giovanni Pascoli, “con appassionata dedizione”. Con in chiaro i nomi dei bambini e dell’insegnante di riferimento che abbia preso a cuore quest’iniziativa. Sarebbe giusto che ci fosse una dichiarazione dell’“appartenenza” nella cura: perché c’è spazio per più consapevolezza, più orgoglio, più gusto, quando c’è un merito dichiarato e pubblicamente riconosciuto.
Educare alla sensibilità verso il mondo che ci ospita è un aspetto essenziale che la scuola dovrebbe perseguire: nell’educare all’empatia verso la natura, al rispetto della bellezza, alla cura delle piante, dei fiori, al rispetto della vita selvatica, c’è il nucleo più fecondo di un sentimento etico che può fiorire poi appieno nella prima giovinezza. Con basi tanto più solide quanto più la consapevolezza sia cresciuta pragmaticamente nel fare e nel gustare, in prima persona, la soddisfazione del risultato. Sia nella bellezza riconquistata, sia nel riconoscimento per il lavoro svolto. Il meccanismo di ricompensa emotiva è il più potente rinforzo che si possa dare a un comportamento sano.
Sta a noi adulti rendere la cura dei giardini, degli spazi verdi, delle piazze, un motivo di orgoglio, e di gioia. Sta a noi affinare nei piccoli la capacità di vedere la bellezza nelle piccole cose, in silenziosa simmetria di vulnerabilità, e desiderare di proteggerla. Anche da noi adulti, dai nostri astratti furori ecologisti, troppo spesso compiaciuti e inconcludenti, dalla nostra rassegnata, colpevole indifferenza.