“Ho letto con interesse il Suo articolo sul cerotto al testosterone. Mi ha però molto sorpreso l’affermazione che gli effetti collaterali sono uguali fra donne trattate con il cerotto attivo e il gruppo di controllo. Sapevo che c’è l’effetto placebo, in cui si può avere un miglioramento anche nelle persone che non assumono il farmaco attivo. Ma come è possibile che una persona che non lo assume abbia gli stessi effetti collaterali del farmaco attivo?”. Questo mi chiede un acuto lettore di Venezia, che ha colto un aspetto singolare su cui raramente si riflette: il ruolo dell’aspettativa nel modificare, in positivo o in negativo, l’azione non solo di un farmaco, ma anche di un comportamento. Giustamente il lettore menziona l’effetto “placebo” (dal latino placere, letteralmente “io piacerò”). E, molto sottilmente, mi invita a parlare di un effetto meno conosciuto, ma del pari importante: l’effetto “nocebo” (dal latino nocere, letteralmente “io nuocerò”), in cui l’aspettativa negativa può essere così potente da condizionare anche la risposta biologica. Quali sono i denominatori comuni di questi due opposti effetti, presenti primo o poi nella vita di ognuno di noi?
Per definizione, il placebo è una sostanza inerte, priva quindi di attività biologica specifica, ma anche una qualsiasi altra terapia o provvedimento non farmacologico (un consiglio, un messaggio, un incoraggiamento), che, pur privo di efficacia terapeutica specifica, venga utilizzato per provocare un effetto positivo su un sintomo o una malattia. Questa modalità di terapia viene usata nella ricerca scientifica per verificare l’effettiva azione di principi attivi in studio: un gruppo di persone viene trattato con il farmaco attivo e il gruppo di controllo (che deve avere rigorosamente le stesse caratteristiche di tipo di patologia, età, razza, quadro sintomatologico e clinico) viene trattato per l’appunto con il placebo. Confronto importante perché, per esempio, si sa che nelle malattie con una forte componente psicosomatica, quali l’insonnia, la cefalea o la depressione, l’effetto placebo può arrivare al 35-40 per cento di miglioramenti, fino a punte del 60-80 per cento... nei primi tre mesi di trattamento. Dopo di che il gruppo placebo tende a tornare all’intensità di sintomi abituale, mentre il gruppo in trattamento attivo – se il farmaco funziona – mostra che il miglioramento non solo è più marcato, ma persiste nel tempo. L’efficacia di un farmaco si misura proprio dalla differenza di risultato fra gruppo trattato e gruppo placebo, in genere a tre e sei mesi dall’inizio del trattamento.
In che modo l’aspettativa positiva può essere curativa? In realtà dire che l’effetto è “solo psicologico” non è corretto. Da un lato, l’aspettativa modifica l’atteggiamento che la persona ha verso i sintomi di cui soffre e verso la malattia che li sottende. Questo significa che si modificano milioni di neurotrasmettitori nel cervello: se l’aspettativa è positiva (“con questa cura vedrai che guarirò”) aumentano, tra gli altri, la serotonina, che regola il tono dell’umore: e sappiamo che la percezione della gravità di un sintomo aumenta se l’umore è depresso e migliora se l’umore è buono. Aumenta la dopamina, che migliora l’energia vitale, l’assertività, l’atteggiamento positivo e la speranza: aspetto quest’ultimo difficile da quantizzare, ma estremamente potente nel condizionare anche l’attività, per esempio, del sistema immunitario, attraverso sottili interazioni nervose, immunitarie e ormonali. Aumentano le endorfine, che sono i nostri analgesici naturali: e questo spiega il miglioramento anche del dolore, specie nelle sue componenti psichiche di risonanza, legate all’ansia, alla solitudine, alla depressione. Si riducono l’adrenalina e tutti i mediatori dell’ansia. Quindi anche il placebo ha un effetto biologico, non legato al principio attivo ma alle aspettative positive che la stessa somministrazione, e il modo con cui è stata effettuata, hanno attivato nella persona così trattata. Quando vediamo l’utilità dell’effetto placebo nella pratica clinica? Quando il medico sa ascoltare, sa diagnosticare, sa confortare: in tal caso, a parità di farmaci usati, ottiene miglioramenti molto più significativi del collega che usa correttamente la medicina ma resta freddo e distaccato. Anche l’atteggiamento del medico è dunque un placebo formidabile, come si vede in modo eclatante nell’omeopatia, in cui i principi attivi sono a dosi ultradiluite, l’aspettativa è massima e i risultati positivi a volte sorprendenti.
Di converso, che cosa scatena l’effetto nocebo, ossia la comparsa di effetti collaterali in assenza di principi attivi? Ma anche, più spesso, la comparsa di tanti effetti collaterali con farmaci usualmente ben tollerati? Negli studi clinici, l’effetto nocebo è presente con due cause principali: da un lato, la persona attribuisce al farmaco che crede di assumere (mentre in realtà è nel gruppo di controllo) problemi o sintomi che erano già presenti ma cui dedicava prima poca attenzione (per esempio sintomi neurovegetativi “aspecifici” quali debolezza, stanchezza, irritabilità, ipersonnia o altre difficoltà nel sonno, o nella digestione, o sintomi sessuali; o sintomi cutanei minori, come un’acne lieve) e che ora attribuisce al farmaco. Dall’altro, attraverso il condizionamento negativo che ottiene documentandosi sulla ricerca in corso: l’aspettativa negativa agisce poi sul sistema neurobiologico, immunitario ed ormonale in modo opposto a quanto fa il placebo. E’ un effetto raro? Nient’affatto. Ogni medico lo vede quotidianamente in molti pazienti, quando lamentano una lista di effetti collaterali con un farmaco in genere ben tollerato, solo perché hanno letto il foglietto illustrativo che accompagna la confezione e sono rimasti spaventati.
Che cosa può aumentare la vulnerabilità all’effetto nocebo? Tre fattori, soprattutto: l’avere una personalità ansiosa, e quindi iperreattiva, anche dal punto di vista neurovegetativo, che è il grande regista delle nostre reazioni primarie a un farmaco; l’avere un medico distaccato e frettoloso, che non attiva la fiducia essenziale a capire perché quel farmaco sia necessario per guarire o almeno migliorare; l’avere un contesto (media inclusi) che demonizzi il farmaco usato (basti pensare al terrorismo effettuato contro le terapie ormonali sostitutive per le donne in menopausa).
In positivo, come possiamo utilizzare al meglio il ruolo dell’aspettativa in ogni percorso di guarigione? Incoraggiando innanzitutto la persona che soffre, o è malata, ad assumersi il ruolo di protagonista del percorso di guarigione; stabilendo un buon rapporto medico-paziente, che ottimizzi la fiducia e la speranza, e che sappia valutare con intelligenza clinica i veri effetti collaterali distinguendoli dai sintomi che sono in realtà un modo per dire “dottore, ho paura”; e, come familiari, sostenendo con la presenza, l’affetto, la sollecitudine, la persona malata, e spaventata, che affronta la piccola o grande sfida di riuscire a guarire. Anche l’amore che aiuta e sostiene, l’amore visibile, può minimizzare la paura, riducendo l’effetto nocebo; e potenziare invece la speranza e la capacità di guarire – il perfetto effetto placebo – utilizzando al meglio i farmaci attivi.
Per definizione, il placebo è una sostanza inerte, priva quindi di attività biologica specifica, ma anche una qualsiasi altra terapia o provvedimento non farmacologico (un consiglio, un messaggio, un incoraggiamento), che, pur privo di efficacia terapeutica specifica, venga utilizzato per provocare un effetto positivo su un sintomo o una malattia. Questa modalità di terapia viene usata nella ricerca scientifica per verificare l’effettiva azione di principi attivi in studio: un gruppo di persone viene trattato con il farmaco attivo e il gruppo di controllo (che deve avere rigorosamente le stesse caratteristiche di tipo di patologia, età, razza, quadro sintomatologico e clinico) viene trattato per l’appunto con il placebo. Confronto importante perché, per esempio, si sa che nelle malattie con una forte componente psicosomatica, quali l’insonnia, la cefalea o la depressione, l’effetto placebo può arrivare al 35-40 per cento di miglioramenti, fino a punte del 60-80 per cento... nei primi tre mesi di trattamento. Dopo di che il gruppo placebo tende a tornare all’intensità di sintomi abituale, mentre il gruppo in trattamento attivo – se il farmaco funziona – mostra che il miglioramento non solo è più marcato, ma persiste nel tempo. L’efficacia di un farmaco si misura proprio dalla differenza di risultato fra gruppo trattato e gruppo placebo, in genere a tre e sei mesi dall’inizio del trattamento.
In che modo l’aspettativa positiva può essere curativa? In realtà dire che l’effetto è “solo psicologico” non è corretto. Da un lato, l’aspettativa modifica l’atteggiamento che la persona ha verso i sintomi di cui soffre e verso la malattia che li sottende. Questo significa che si modificano milioni di neurotrasmettitori nel cervello: se l’aspettativa è positiva (“con questa cura vedrai che guarirò”) aumentano, tra gli altri, la serotonina, che regola il tono dell’umore: e sappiamo che la percezione della gravità di un sintomo aumenta se l’umore è depresso e migliora se l’umore è buono. Aumenta la dopamina, che migliora l’energia vitale, l’assertività, l’atteggiamento positivo e la speranza: aspetto quest’ultimo difficile da quantizzare, ma estremamente potente nel condizionare anche l’attività, per esempio, del sistema immunitario, attraverso sottili interazioni nervose, immunitarie e ormonali. Aumentano le endorfine, che sono i nostri analgesici naturali: e questo spiega il miglioramento anche del dolore, specie nelle sue componenti psichiche di risonanza, legate all’ansia, alla solitudine, alla depressione. Si riducono l’adrenalina e tutti i mediatori dell’ansia. Quindi anche il placebo ha un effetto biologico, non legato al principio attivo ma alle aspettative positive che la stessa somministrazione, e il modo con cui è stata effettuata, hanno attivato nella persona così trattata. Quando vediamo l’utilità dell’effetto placebo nella pratica clinica? Quando il medico sa ascoltare, sa diagnosticare, sa confortare: in tal caso, a parità di farmaci usati, ottiene miglioramenti molto più significativi del collega che usa correttamente la medicina ma resta freddo e distaccato. Anche l’atteggiamento del medico è dunque un placebo formidabile, come si vede in modo eclatante nell’omeopatia, in cui i principi attivi sono a dosi ultradiluite, l’aspettativa è massima e i risultati positivi a volte sorprendenti.
Di converso, che cosa scatena l’effetto nocebo, ossia la comparsa di effetti collaterali in assenza di principi attivi? Ma anche, più spesso, la comparsa di tanti effetti collaterali con farmaci usualmente ben tollerati? Negli studi clinici, l’effetto nocebo è presente con due cause principali: da un lato, la persona attribuisce al farmaco che crede di assumere (mentre in realtà è nel gruppo di controllo) problemi o sintomi che erano già presenti ma cui dedicava prima poca attenzione (per esempio sintomi neurovegetativi “aspecifici” quali debolezza, stanchezza, irritabilità, ipersonnia o altre difficoltà nel sonno, o nella digestione, o sintomi sessuali; o sintomi cutanei minori, come un’acne lieve) e che ora attribuisce al farmaco. Dall’altro, attraverso il condizionamento negativo che ottiene documentandosi sulla ricerca in corso: l’aspettativa negativa agisce poi sul sistema neurobiologico, immunitario ed ormonale in modo opposto a quanto fa il placebo. E’ un effetto raro? Nient’affatto. Ogni medico lo vede quotidianamente in molti pazienti, quando lamentano una lista di effetti collaterali con un farmaco in genere ben tollerato, solo perché hanno letto il foglietto illustrativo che accompagna la confezione e sono rimasti spaventati.
Che cosa può aumentare la vulnerabilità all’effetto nocebo? Tre fattori, soprattutto: l’avere una personalità ansiosa, e quindi iperreattiva, anche dal punto di vista neurovegetativo, che è il grande regista delle nostre reazioni primarie a un farmaco; l’avere un medico distaccato e frettoloso, che non attiva la fiducia essenziale a capire perché quel farmaco sia necessario per guarire o almeno migliorare; l’avere un contesto (media inclusi) che demonizzi il farmaco usato (basti pensare al terrorismo effettuato contro le terapie ormonali sostitutive per le donne in menopausa).
In positivo, come possiamo utilizzare al meglio il ruolo dell’aspettativa in ogni percorso di guarigione? Incoraggiando innanzitutto la persona che soffre, o è malata, ad assumersi il ruolo di protagonista del percorso di guarigione; stabilendo un buon rapporto medico-paziente, che ottimizzi la fiducia e la speranza, e che sappia valutare con intelligenza clinica i veri effetti collaterali distinguendoli dai sintomi che sono in realtà un modo per dire “dottore, ho paura”; e, come familiari, sostenendo con la presenza, l’affetto, la sollecitudine, la persona malata, e spaventata, che affronta la piccola o grande sfida di riuscire a guarire. Anche l’amore che aiuta e sostiene, l’amore visibile, può minimizzare la paura, riducendo l’effetto nocebo; e potenziare invece la speranza e la capacità di guarire – il perfetto effetto placebo – utilizzando al meglio i farmaci attivi.