Il più grande esodo migratorio della storia moderna europea? Quello degli italiani. La maggior parte di noi ha dimenticato, o preferito dimenticare, lo sradicamento massiccio che ha lacerato il nostro Paese, in ogni sua regione. A partire dal 1861 sono state registrate più di ventiquattro milioni di partenze, numero equivalente alla popolazione italiana al momento dell’Unità. Gli strappi di intere famiglie, le ferite più profonde, fino al 1900 sono avvenuti innanzitutto al Nord, che fornì da solo il 47% di tutti gli emigranti: con in testa il Veneto (17,9%), seguito da Friuli Venezia Giulia (16,1%) e Piemonte (12,5%). Da quella data, e fino a tutti gli anni Venti, il primato è passato al Sud, con Calabria, Campania e Sicilia a veder staccarsi, per andare nel mondo, altri tre milioni di persone, oltre ad altri nove dal resto del Paese. Una grande emigrazione mondiale, fino agli Anni Trenta, con destinazioni prioritarie le Americhe e, in minor misura, l’Australia, dove comunque la popolazione italiana è oggi la seconda, per numero, dopo l’inglese. E una seconda ondata, europea, negli Anni Cinquanta. Un’emigrazione da subito di lungo periodo: chi partiva per destinazioni extraeuropee sapeva che non sarebbe tornato. Un addio, dunque, durissimo. Anche perché chi partiva raramente aveva un’istruzione: più del 90% era analfabeta, con limitate competenze anche professionali, soprattutto nel caso di ragazzi giovani o giovanissimi, e poteva lavorare solo come bracciante o manovale, o minatore. Con storie di sfruttamento e di dolore senza sbocchi che sono rimaste nell’ombra, mentre la luce del successo, la realizzazione del sogno di trovar fortuna, ha premiato solo una minoranza degli emigrati di prima generazione.
Quali sentimenti combattono tra loro nel cuore di chi è costretto ad emigrare per fame? Molti, del più vario colore. Ad un estremo, il senso di perdita, di lacerazione, di abbandono, di rassegnazione, di fatica disperata. Sentimenti scritti nelle rughe profonde dei volti, nelle pieghe amare della bocca, nella curva affaticata delle spalle, nello sguardo senza luce di chi non ha trovato il paese dei sogni, o, se anche abbia trovato una terra migliore per vivere, non riesce a superare il senso di lontananza, di sradicamento, di ingiustizia, di rabbia anche. Segni visibili nelle foto, così espressive e dense di parole ed emozioni non dette, eppur fissate per sempre nell’immagine. Foto visibili negli archivi dei Musei dell’Emigrazione, a torto negletti nei nostri viaggi all’estero. Segni più forti in molti volti di donna, spesso casalinga, con orizzonti ancora più limitati, mentre gli uomini, se non altro per la necessità del lavoro fuori casa, potevano a volte trovare più opportunità di integrazione. La ferita sul bisogno di appartenenza e di attaccamento, fortissimo tra gli umani, è alla base della creazione di isole di connazionali, incistate nelle città di arrivo. Per ricreare gli odori, i profumi, i sapori, le voci e i suoni e le cadenze, i canti e le musiche, e i piccoli orizzonti quotidiani della propria terra perduta. Nostalgia – il dolore del ritorno, sognato e spesso mai più realizzato –, come recita il potente etimo greco, è il sentimento dominante. Un sentimento che nutre il rimpianto, e il bisogno di sentire ancora le parole, le voci, l’idioma di casa. E’ una nostalgia che cerca un abbraccio dove la lingua materna è musica per il cuore, come una carezza. Come svelano le parole scritte in italiano sulla lapide di Renata P, nel cimitero inglese di Melbourne, il Fawker Memorial Park, un poetico giardino. “Non piangete la mia assenza. Sentitemi vicino. E parlatemi, ancora”.
Dall’altro, il bisogno di integrazione nel nuovo Paese, a cominciare dal nome proprio dato ai figli, che diventa inglese, nei Paesi anglosassoni, o spagnolo, in Sud America. Il dolore dell’emigrato allora s’incista, e pare non faccia più male. Il bisogno di antica appartenenza diventa segreto, come la nostalgia. Eppure corre silenzioso tra le generazioni, anche quando l’integrazione nel nuovo Paese è stata ottimale. «Mio figlio, che ha 15 anni, è completamente cambiato», mi ha raccontato un medico australiano ben realizzato, di origine calabrese, incontrato in questi giorni ad Adelaide. «Mio bisnonno era venuto qui all’inizio del secolo scorso, nel 1912. L’anno scorso per la prima volta siamo tornati in Calabria io e mio figlio Joseph, per un mese, da soli. Lì abbiamo incontrato i nostri cugini, per così dire, di quarta e quinta generazione. Ma è lo stesso sangue. E quando girava per il paese con il cugino della sua età, e tutti chiedevano chi fosse, e l’altro rispondeva orgoglioso “E’ mio cugino che viene dall’Australia”, anche mio figlio era fiero, di un orgoglio nuovo. L’ho notato osservandoli da lontano. Ma l’emozione più forte è stata quando insieme, noi due, siamo andati al cimitero, a trovare la tomba dei nostri avi. Giuseppe si chiamavano tutti i nostri capofamiglia. “Queste sono le tue radici, questo è il tuo nome”, gli ho detto. Lui è rimasto silenzioso. Poi, dopo qualche settimana, tornati in Australia, riguardando le foto dell’Italia, una sera mi ha detto: “Papà, adesso ho capito chi sono”».
Quali sentimenti combattono tra loro nel cuore di chi è costretto ad emigrare per fame? Molti, del più vario colore. Ad un estremo, il senso di perdita, di lacerazione, di abbandono, di rassegnazione, di fatica disperata. Sentimenti scritti nelle rughe profonde dei volti, nelle pieghe amare della bocca, nella curva affaticata delle spalle, nello sguardo senza luce di chi non ha trovato il paese dei sogni, o, se anche abbia trovato una terra migliore per vivere, non riesce a superare il senso di lontananza, di sradicamento, di ingiustizia, di rabbia anche. Segni visibili nelle foto, così espressive e dense di parole ed emozioni non dette, eppur fissate per sempre nell’immagine. Foto visibili negli archivi dei Musei dell’Emigrazione, a torto negletti nei nostri viaggi all’estero. Segni più forti in molti volti di donna, spesso casalinga, con orizzonti ancora più limitati, mentre gli uomini, se non altro per la necessità del lavoro fuori casa, potevano a volte trovare più opportunità di integrazione. La ferita sul bisogno di appartenenza e di attaccamento, fortissimo tra gli umani, è alla base della creazione di isole di connazionali, incistate nelle città di arrivo. Per ricreare gli odori, i profumi, i sapori, le voci e i suoni e le cadenze, i canti e le musiche, e i piccoli orizzonti quotidiani della propria terra perduta. Nostalgia – il dolore del ritorno, sognato e spesso mai più realizzato –, come recita il potente etimo greco, è il sentimento dominante. Un sentimento che nutre il rimpianto, e il bisogno di sentire ancora le parole, le voci, l’idioma di casa. E’ una nostalgia che cerca un abbraccio dove la lingua materna è musica per il cuore, come una carezza. Come svelano le parole scritte in italiano sulla lapide di Renata P, nel cimitero inglese di Melbourne, il Fawker Memorial Park, un poetico giardino. “Non piangete la mia assenza. Sentitemi vicino. E parlatemi, ancora”.
Dall’altro, il bisogno di integrazione nel nuovo Paese, a cominciare dal nome proprio dato ai figli, che diventa inglese, nei Paesi anglosassoni, o spagnolo, in Sud America. Il dolore dell’emigrato allora s’incista, e pare non faccia più male. Il bisogno di antica appartenenza diventa segreto, come la nostalgia. Eppure corre silenzioso tra le generazioni, anche quando l’integrazione nel nuovo Paese è stata ottimale. «Mio figlio, che ha 15 anni, è completamente cambiato», mi ha raccontato un medico australiano ben realizzato, di origine calabrese, incontrato in questi giorni ad Adelaide. «Mio bisnonno era venuto qui all’inizio del secolo scorso, nel 1912. L’anno scorso per la prima volta siamo tornati in Calabria io e mio figlio Joseph, per un mese, da soli. Lì abbiamo incontrato i nostri cugini, per così dire, di quarta e quinta generazione. Ma è lo stesso sangue. E quando girava per il paese con il cugino della sua età, e tutti chiedevano chi fosse, e l’altro rispondeva orgoglioso “E’ mio cugino che viene dall’Australia”, anche mio figlio era fiero, di un orgoglio nuovo. L’ho notato osservandoli da lontano. Ma l’emozione più forte è stata quando insieme, noi due, siamo andati al cimitero, a trovare la tomba dei nostri avi. Giuseppe si chiamavano tutti i nostri capofamiglia. “Queste sono le tue radici, questo è il tuo nome”, gli ho detto. Lui è rimasto silenzioso. Poi, dopo qualche settimana, tornati in Australia, riguardando le foto dell’Italia, una sera mi ha detto: “Papà, adesso ho capito chi sono”».