Un gioco divertente? Riscoprire l’etimo, l’origine di una parola. E’ facilissimo, con Internet disponibile ovunque. E’ un’archeologia del linguaggio per pochi bizzarri? No. E’ un gioco appassionante già per se stessi: trovi un etimo singolare, o inatteso e sorprendente, e parte immediatamente il cervello associativo, l’emisfero destro, dove volano la creatività, le emozioni della lingua materna, la visione prelogica e intuitiva del mondo.
Le parole sono mantra: “strumenti del pensiero”. Hanno una straordinaria potenza intrinseca, smarrita nella banalità, nell’insipienza, nella superficialità del parlare quotidiano. Riscoprire l’etimo di una parola è divertente con gli amici, soprattutto se si prende un tema stuzzicante: che sia l’amore, l’erotismo, un comportamento, un vizio o una virtù. E’ prezioso con i figli, se si riesce ad appassionarli ad usare l’italiano, splendida lingua, come uno strumento raffinato e potente per esprimersi ed esistere consapevolmente nel mondo. E’ difficile imparare bene una lingua straniera, se non si conosce bene la propria. Per le lingue romanze, o neolatine, principali – spagnolo, francese, portoghese, catalano, rumeno – affini all’italiano, conoscere l’etimo velocizza l’apprendimento, aumenta la varietà del lessico, entusiasma per la pregnanza nella scelta accurata delle parole. Per le lingue anglosassoni – inglese, tedesco, olandese e le scandinave – l’uso di parole con etimo greco o latino dà subito al linguaggio una connotazione colta ed elegante. Conoscere l’etimo aumenta l’incisività, la profondità, la varietà, l’espressività, il colore delle parole, arricchendo la logica della lingua paterna. Veste con accuratezza i pensieri e li rende limpidi, efficaci, penetranti. A volte indimenticabili. Consente una formidabile varietà di registri linguistici, di toni e di modi: si può essere più sottilmente ironici, caustici, divertenti o deliziosamente affettuosi e poetici, quando la parola è usata con attenta consapevolezza. Il tutto presuppone che anche l’interlocutore sia sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda. O abbia almeno qualche recettore aperto sul fronte della curiosità emozionale, e non solo strettamente linguistica. Perché il potere mantrico della parola è come un iceberg. La superficie, il significato comunicativo più comune, è solo la punta della potenza che alcune parole, più di altre, racchiudono. Sotto la superficie, esiste una grande potenza di emozione. E commozione.
Papa Francesco, formidabile comunicatore, è capace di toccare il cuore di tutti, usando meditate parole, precise, nette, concrete e insieme capaci di evocare l’assoluto. La finezza conoscitiva della loro scelta è così connaturata nel suo stile comunicativo da riuscire ad essere efficacissimo, e compreso da tutti, nell’apparente semplicità. Se il Papa dice «Tutti abbiamo fame di infinito. Solo la fede la può saziare», fa prima un’affermazione universale. Tutti abbiamo una concretissima fame, parola che contiene l’idea di mancanza, un bisogno primario di essere saziati, di essere soddisfatti pienamente. Di andare oltre la finitezza del corpo e dei suoi limiti, di muoverci dall’istintiva corporeità dell’animale, più o meno felice, che vive in noi, di liberarci anche dalla sottile angoscia di morte che tendiamo a negare con crescente vitalismo edonistico, per salire ad orizzonti mentali, conoscitivi e spirituali più alti. Nella sua frase vibrano i molti echi delle sue parole. Due concrete: fame e saziare. Due assolute: infinito e fede. Fame d’infinito: di andare oltre i limiti, oltre il cosmo finito e circoscritto. E fede: fiducia, fedeltà, costanza nell’accettazione di una realtà invisibile, che in ambito spirituale si assimila al divino.
«E il naufragar m’è dolce in questo mare», diceva Leopardi. Ci si può perdere in una ricerca terrena di infinito: nella vertigine luminosa dell’amore, della passione, o dell’ambizione, di cui tutti abbiamo sperimentato anche i lati oscuri, gli abissi di delusione e di frustrazione, i disincanti. O si può cercare l’infinito, l’assoluto, nella dimensione spirituale e religiosa. Fino alla benedizione di una fede assaporata nella dimensione del divino o alla felice ricerca di altri infiniti.
Le parole sono mantra: “strumenti del pensiero”. Hanno una straordinaria potenza intrinseca, smarrita nella banalità, nell’insipienza, nella superficialità del parlare quotidiano. Riscoprire l’etimo di una parola è divertente con gli amici, soprattutto se si prende un tema stuzzicante: che sia l’amore, l’erotismo, un comportamento, un vizio o una virtù. E’ prezioso con i figli, se si riesce ad appassionarli ad usare l’italiano, splendida lingua, come uno strumento raffinato e potente per esprimersi ed esistere consapevolmente nel mondo. E’ difficile imparare bene una lingua straniera, se non si conosce bene la propria. Per le lingue romanze, o neolatine, principali – spagnolo, francese, portoghese, catalano, rumeno – affini all’italiano, conoscere l’etimo velocizza l’apprendimento, aumenta la varietà del lessico, entusiasma per la pregnanza nella scelta accurata delle parole. Per le lingue anglosassoni – inglese, tedesco, olandese e le scandinave – l’uso di parole con etimo greco o latino dà subito al linguaggio una connotazione colta ed elegante. Conoscere l’etimo aumenta l’incisività, la profondità, la varietà, l’espressività, il colore delle parole, arricchendo la logica della lingua paterna. Veste con accuratezza i pensieri e li rende limpidi, efficaci, penetranti. A volte indimenticabili. Consente una formidabile varietà di registri linguistici, di toni e di modi: si può essere più sottilmente ironici, caustici, divertenti o deliziosamente affettuosi e poetici, quando la parola è usata con attenta consapevolezza. Il tutto presuppone che anche l’interlocutore sia sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda. O abbia almeno qualche recettore aperto sul fronte della curiosità emozionale, e non solo strettamente linguistica. Perché il potere mantrico della parola è come un iceberg. La superficie, il significato comunicativo più comune, è solo la punta della potenza che alcune parole, più di altre, racchiudono. Sotto la superficie, esiste una grande potenza di emozione. E commozione.
Papa Francesco, formidabile comunicatore, è capace di toccare il cuore di tutti, usando meditate parole, precise, nette, concrete e insieme capaci di evocare l’assoluto. La finezza conoscitiva della loro scelta è così connaturata nel suo stile comunicativo da riuscire ad essere efficacissimo, e compreso da tutti, nell’apparente semplicità. Se il Papa dice «Tutti abbiamo fame di infinito. Solo la fede la può saziare», fa prima un’affermazione universale. Tutti abbiamo una concretissima fame, parola che contiene l’idea di mancanza, un bisogno primario di essere saziati, di essere soddisfatti pienamente. Di andare oltre la finitezza del corpo e dei suoi limiti, di muoverci dall’istintiva corporeità dell’animale, più o meno felice, che vive in noi, di liberarci anche dalla sottile angoscia di morte che tendiamo a negare con crescente vitalismo edonistico, per salire ad orizzonti mentali, conoscitivi e spirituali più alti. Nella sua frase vibrano i molti echi delle sue parole. Due concrete: fame e saziare. Due assolute: infinito e fede. Fame d’infinito: di andare oltre i limiti, oltre il cosmo finito e circoscritto. E fede: fiducia, fedeltà, costanza nell’accettazione di una realtà invisibile, che in ambito spirituale si assimila al divino.
«E il naufragar m’è dolce in questo mare», diceva Leopardi. Ci si può perdere in una ricerca terrena di infinito: nella vertigine luminosa dell’amore, della passione, o dell’ambizione, di cui tutti abbiamo sperimentato anche i lati oscuri, gli abissi di delusione e di frustrazione, i disincanti. O si può cercare l’infinito, l’assoluto, nella dimensione spirituale e religiosa. Fino alla benedizione di una fede assaporata nella dimensione del divino o alla felice ricerca di altri infiniti.
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