Anche in Oregon le battaglie tra favorevoli e contrari furono feroci. Gli avversari della legge paventavano tregende incombenti: le code alle frontiere degli aspiranti suicidi, provenienti dagli altri Stati americani che non avevano legalizzato il suicidio assistito. Una prevalenza di poveri, di immigrati e di disperati. Temevano una crescente pressione familiare, nelle famiglie più povere, verso i congiunti più malati, perché non in grado di assisterli né di fornire la costosa assistenza sanitaria americana. Temevano una “slippery slope”, una china scivolosa e pericolosa, che avrebbe portato a coinvolgere malati non terminali. E un picco, nelle motivazioni, dell’impossibilità di tollerare ulteriore dolore fisico.
L’analisi demografica e motivazionale dei casi di suicidio assistito (596 al momento dello studio) durante i 15 anni di vigore della legge, condotta da Barbara Glidewell e Linda Ganzini, dell’Università Health and Science dello Stato dell’Oregon, ha mostrato una realtà completamente diversa. Innanzitutto, nessuna coda alle frontiere, nessun turismo della morte o altre macabrerie simili. La maggioranza delle persone che ha richiesto l’autorizzazione e la prescrizione dei farmaci per l’eutanasia sono di razza bianca, benestanti, di alto livello culturale, quasi tutti cittadini dell’Oregon. La prevalenza è di un suicidio assistito su 1000 morti naturali (per malattia, vecchiaia o incidente). Uomini e donne sono ugualmente rappresentati. L’età media è di 71 anni. L’81% aveva un cancro terminale, il 7% la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), o malattia di Lou Gehrig, una temibile patologia in cui la paralisi progressiva della muscolatura, sino all’asfissia per paralisi dei muscoli respiratori, si accompagna a un cervello perfettamente lucido sino alla fine. Il rimanente 12% era affetto da patologie respiratori o cardiache giunte alle battute finali. Sul fronte delle motivazioni, la sorpresa più sostanziale: quasi nessuno ha riportato il dolore come causa prima. La maggioranza delle persone studiate ha dichiarato di scegliere l’eutanasia per tre ragioni: rimanere protagonisti della propria vita sino alla fine, controllando anche quando morire; rimanere autonomi, con dignità; morire a casa propria.
L’analisi delle motivazioni indica quindi che lo scegliere quando morire, quando si è affetti da una malattia terminale, è determinato soprattutto da valutazioni e valori personali. La morte assistita in caso di malattia terminale è del tutto diversa da altre tipologie di suicidio: non ha alcuna dinamica aggressiva, non è contro nessuno, non è solitaria né violenta. Non lascia amici e parenti disperati, travolti dai sensi di colpa, vite lacerate da perché senza più risposta. E’ una morte scelta, annunciata, vissuta con dignità e sobrietà, per garantirsi un ultimo giorno di qualità e di pace finale, spesso in compagnia delle persone più amate. Con un approccio lucido che ricorda l’attitudine dei filosofi stoici. In più, con una grande valenza affettiva: quel morire a casa, nella propria tana, con i propri affetti, dolcemente. Una morte profondamente umana, senza più accanimenti terapeutici né tecnologie esasperate. Una morte per la quale ci si è preparati, per un meditato e sereno addio.
Resta una domanda: in che cosa la qualità di queste morti si differenzia da quelle di chi, avendo una dimensione spirituale, non vuole determinare il tempo della propria fine preferendo accettare il tempo naturale? E’ possibile, in questa direzione, evitare comunque sofferenze ulteriori, accanimenti terapeutici, e altre solitudini?
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