Di certo questi ragazzi e ragazze non hanno alle spalle una famiglia “arco”, che li abbia incoraggiati a scoprire i propri talenti, usandoli, e a provarsi così con le diverse difficoltà della vita, a seconda dell’età. Che li abbia stimolati a fare, a scoprire, a provarsi con le cose, a usare le mani e il cervello sia nei piccoli lavori quotidiani, anche in casa, sia in uno sport o in un’attività che li possa appassionare fin da piccoli. Che sia suonare uno strumento, cantare, dipingere, cucinare, studiare gli animali, ballare, coltivare fiori o quant’altro rappresenti una scoperta, una sfida, un modo per sperimentarsi. E a farlo con costanza e impegno, senza arrendersi alla prima difficoltà: le 10.000 ore di pratica necessarie per “volare” in qualsiasi disciplina dicono bene per quanto tempo sia necessario impegnarsi per ottenere un risultato nella vita.
Spontaneismo e genialità a prescindere da una pratica rigorosa non portano da nessuna parte. La famiglia “arco” non incolpa ogni volta l’insegnante, l’istruttore o la maestra di turno, ma cerca un dialogo costruttivo con le altre figure centrali per la crescita perché il figlio/a possa fare della difficoltà un’opportunità per un passo avanti, sia interiore, sia nella crescita in quella disciplina. Che può durare fino a diventare un pilastro portante della vita o concludersi come esperienza, grazie alla quale comunque ogni bambino e ogni adolescente può scoprire qualcos’altro di sé e di come stare al mondo. E’ questo l’obiettivo di quella “educazione concertata” (“concerted cultivation”) più probabile, ma non certa, nelle famiglie colte e benestanti.
Le famiglie “gabbia”, indipendentemente dal reddito, hanno denominatori precisi: il primo e più diffuso è un’iperprotettività asfissiante, chiamata “amore”. Parola ambigua, luminosa e oscura, usata per coprire di un manto dorato anche i comportamenti più distruttivi. L’amore palude, che fa affondare talenti e futuro, non fa rumore, ma può essere fatale. Secondo, un’inerzia progettuale, un’accidia esistenziale, spesso anche nella vita personale. Terzo, la rassegnazione a orizzonti ristretti.
Essere genitori maieutici, capaci di far emergere i talenti dei figli, richiede fatica, impegno, capacità di mettersi a propria volta in discussione. Capacità di condividere tra padre e madre, insieme o da separati, uno stile educativo. Capacità di dire di no, di motivarlo e farlo rispettare. A cominciare dall’uso limitato dei social, dal rispetto degli orari e delle regole base dell’educazione. Ma se i genitori per primi non le hanno, dove le apprendono i figli?
Già prima di concepire un figlio, ma certamente dopo la sua nascita, i genitori dovrebbero chiedersi: che famiglia vogliamo essere? Gabbia o arco? In questa ricerca, ciascun membro della coppia ha l’opportunità e lo stimolo per ripensarsi, per riaprirsi a nuove possibilità e opportunità, senza chiudersi nella ripetitività del quotidiano. Il lavoro non mi soddisfa, perché magari anch’io ho avuto una famiglia gabbia? Cerco di vedere quali opportunità concrete ho di cambiare, magari cominciando a studiare sul serio una lingua straniera. Leggo qualcosa che mi stimoli a pensare. Rimetto in moto il corpo e la mente con il camminare quotidiano. Smetto di avvelenarmi con alcol e schifezze. Mi rimetto in pista nella vita personale. Ricomincio da me, per essere anche un genitore migliore. Meglio se la coppia riesce a dire, come a volte vedo con soddisfazione: «Ricominciamo da noi». Un interrogarsi costruttivo e dinamico, per una vita personale più stimolante e soddisfacente e uno stile familiare che sappia essere arco per i figli.
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