I fatti: l’uso dei farmaci in gravidanza, includendo i tre mesi prima del concepimento, tutta la gravidanza e il post parto, almeno finché dura l’allattamento, è frequente e ha mostrato un netto incremento negli ultimi anni (con trend minore nelle straniere). Nei Paesi ad alto reddito, l’uso di almeno un farmaco in gravidanza varia dal 22 al 97%, a seconda che si includano o meno anche i polivitaminici e i farmaci di automedicazione. Le certezze: la maggioranza dei farmaci attraversa rapidamente la placenta, che non è affatto impermeabile, e arriva all’embrione o al feto. Per fortuna, pochi farmaci possono determinare malformazioni o alterare il normale, raffinato e concertato sviluppo del feto. Questo può succedere soprattutto a due condizioni: che la terapia sia di lunga durata e/o per patologie croniche preesistenti. In quest’ultimo caso, il peso specifico del ruolo del farmaco va ponderato nei confronti delle conseguenze della patologia di base, specie se trattata in modo inadeguato a causa della gravidanza stessa. Anche l’assorbimento, la dose efficace, la distribuzione nei tessuti e l’eliminazione, la cosiddetta farmacocinetica, che condiziona livelli plasmatici efficaci e profilo di sicurezza di un farmaco, sono fattori critici e dinamici, perché variano molto da donna a donna, anche nel corso della gravidanza. Si pensi solo al peso corporeo: nei bambini è chiaro che ogni farmaco va dato “pro chilo”, ossia una data quantità a seconda del peso del bimbo in quel giorno. Negli adulti usiamo dosi standard: a parità di dose, per esempio un grammo di antibiotico, potremmo tuttavia avere effetti collaterali molto più pesanti nella donna di 40 chili che non in quella di 90, nella quale peraltro la stessa dose potrebbe essere inefficace. La farmacocinetica può variare ancor più in gravidanza. Anzitutto per la variabile peso (ci sono donne che in nove mesi aumentano di 20-30 chili), oltre alle variabili intrinseche allo stato gravidico stesso, fra cui il metabolismo placentare e fetale di un farmaco. In più, esiste una cospicua “emodiluizione” perché la massa plasmatica, ossia la parte liquida del sangue, quasi raddoppia, concorrendo all’anemia gravidica.
Il dato più negativo? L’acido folico (vitamina B9), farmaco essenziale per la prevenzione delle malformazioni fetali della testa e della colonna (organi derivati dal “tubo neurale”), del cuore, dei reni e del palato, è usato molto meno di quanto raccomandato: sono nel 34,6% dei casi! Dovrebbero invece usarlo tutte le donne in età fertile (e i partner!) che cercano figli, per almeno tre mesi prima del concepimento, e tutte le donne che non usano contraccezione attiva. Ancor oggi in Italia la metà dei bambini è concepita “per sbaglio” o nell’ottica “se capita siamo contenti”, ossia senza preparazione. Basso anche l’uso del ferro (solfato ferroso, al 18,7%) in rapporto all’alto numero di donne anemiche in gravidanza e dopo il parto, che supera l’80%. Inappropriatezza prescrittiva per eccesso, secondo la ricerca, a carico del progesterone, usato nel 18,7% dei casi di procreazione medico assistita (PMA), e degli antibiotici (11,5%). E molti altri dati, da tradurre in indicazioni utili per la pratica clinica. Cominciamo subito: acido folico (400 mcg/die) a tutte le donne che non escludano attivamente una gravidanza!
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