“Sono in crisi. Quasi quasi mi faccio un lifting. O un po’ di collagene. Oppure mi rifaccio il seno”. Nell’accezione corrente, la parola “crisi” ha perso il senso di un dibattito interiore costruttivo, di una fase di ripensamento che può preludere a una crescita, a una trasformazione, a un livello di benessere interiore, personale o di coppia, più alto. No. L’accezione è negativa. E ad essa si risponde con una fuga da se stessi e, spesso, con una scelta di tipo cosmetico-estetico. Che si aggiunge alle fughe nel look e negli oggetti che segnino status e potere. In una parola, l’alienazione contemporanea è la fuga nell’esteriorità, nella modificazione migliorativa – almeno nell’intenzione – del corpo e dell’immagine, in età sempre più giovani. E con andamenti epidemici per le donne (e gli uomini) dai cinquant’anni in su. Come se così facendo si potesse in parallelo ridare vita e freschezza e luce all’anima. Con una polarizzazione di energie tanto maggiore quanto più forte è l’abbandono dell’interiorità, non solo in senso spirituale, ma come riflessione profonda e esistenziale sul senso della propria vita. Nessuno nega l’importanza della giusta cura di sé. Il problema nasce quando il ricorso compulsivo al miglioramento – o comunque alla modificazione esteriore – è il segno, la spia, il semaforo rosso di un’incapacità di accettare una crisi personale, e la richiesta di cambiamento che essa sottende, e alla quale si risponde invece con il laser o con il bisturi. Quando è il segno della fuga fino alla perdita di sé, della propria identità e differenza, nel conformismo dell’immagine rifatta.
A seconda dell’ambito, infatti, la parola “crisi” contiene per molti solo una dichiarazione di morte. Di morte di un progetto, di un amore, di un percorso professionale. Della fiducia stessa di poter arrivare a un orizzonte migliore. La crisi – individuale e sociale – contemporanea non è solo l’epigrafe su una fase della vita, sulla relazione di coppia, a volte sullo stesso progetto di famiglia e figli. E’, sempre più spesso, una resa, una diagnosi di coma irreversibile della propria capacità di riscrivere la propria vita, attraversando attivamente la crisi, da protagonista e non da vittima.
La prova? Aumentano, anche in Italia, gli indicatori psichici di malessere, primi fra tutti il senso di solitudine, la depressione, le multiformi espressioni di ansia e fobia sociale, cui si risponde in modo superficial-cosmetico, oltre che chimico (con alcool o droghe), o farmacologico, invece che in modo introspettivo e trasformativo. Una solitudine che si traduce anche in realtà abitativa: basti guardare l’aumento esponenziale dei single, specie tra le donne, soprattutto quando vivano in ambiente urbano. E’ netta la percezione di una società lacerata, in cui crescono in parallelo il senso di smarrrimento in alcuni e il cinismo strumentale in altri, con risposte sempre più spesso superficiali, esteriori. Come se ridipingendo la casa se ne potessero sanare le crepe e le fondamenta.
Perché la lettura di ogni crisi personale tende a essere solo negativa? E’ come se nel nostro lessico quotidiano ne avessimo smarrito tutto il potenziale di positività: aspetto ancora più evidente nei giovani, in cui la fuga si polarizza non solo nel conformismo dell’abbigliamento e dei comportamenti, ma anche nella narcosi alcolica del sabato sera. Una fuga che sta diventando epidemica anche tra i giovanissimi, coinvolgendo le femmine ancora più dei maschi, in termini sia di aumento percentuale, sia di precocità di inizio. Perdendo così quel potenziale trasformativo ben presente e valorizzato in altre culture: l’etimologia ci svela, per esempio, che la parola greca “krìsis” significa ”giudizio, separazione, scelta”, e il verbo corrispondente, “krìnein” significa “separare, passare al setaccio”: la crisi ci può far paura perché ci obbliga a guardarci dentro, a guardare le nostre incompiutezze, le nostre parti irrisolte, le nostre parti d’ombra (“quello che non amiamo di noi”, diceva Carl Jung), come ben ricorda Luciano Manicardi in “L’umano soffrire” (Edizioni Qiqajon, 2006). Ci invita a lasciar andare quello che di noi ha fatto il proprio tempo, ad avere il coraggio di rimetterci in discussione, a passare al setaccio la nostra vita, separando le caratteristiche di qualità dalla pula, e cambiare. L’ideogramma cinese combina nel segno della crisi i concetti di opportunità e rischio: di nuovo sottolineando il potenziale trasformativo che per definizione presuppone il passaggio da uno stato interiore, prima che esteriore, a un altro.
Uomini e donne in fuga, dunque. In fuga da se stessi, pseudofelici di alienarsi nell’esteriorità, e nel conformismo dell’immagine, forse l’elemento più universale e trasversale di quest’ultimo decennio. Pseudofelici di galleggiare nella palude delle apparenze.
Chi fugge nell’esteriorità? Chi ha paura, anche, e forse soprattutto, di se stesso e della propria verità. Specialmente quando questa delude rispetto alle aspettative e ai sogni. Perché ci vuole coraggio, e tanto, per guardarsi dentro, oggi più di ieri, in cui un diverso senso etico e religioso della vita dava spessore ai cambiamenti e alle crisi delle diverse età dell’esistenza. E allora? Dovremmo far nostro quanto diceva Carl Jung: “Non è possibile vivere (il meriggio) o la sera della vita seguendo lo stesso programma del mattino, perché ciò che sino ad allora aveva grande importanza, ne avrà ben poca, e la verità del mattino costituisce l’errore della sera”.
D’altra parte, solo gli adulti e i vecchi che hanno il coraggio di attraversare con coerenza e coraggio le propria crisi, guardandole in faccia, ed esplorandone tutte le potenzialità, potranno insegnare ai giovani, con i fatti, il vero coraggio di vivere, senza più fughe.
A seconda dell’ambito, infatti, la parola “crisi” contiene per molti solo una dichiarazione di morte. Di morte di un progetto, di un amore, di un percorso professionale. Della fiducia stessa di poter arrivare a un orizzonte migliore. La crisi – individuale e sociale – contemporanea non è solo l’epigrafe su una fase della vita, sulla relazione di coppia, a volte sullo stesso progetto di famiglia e figli. E’, sempre più spesso, una resa, una diagnosi di coma irreversibile della propria capacità di riscrivere la propria vita, attraversando attivamente la crisi, da protagonista e non da vittima.
La prova? Aumentano, anche in Italia, gli indicatori psichici di malessere, primi fra tutti il senso di solitudine, la depressione, le multiformi espressioni di ansia e fobia sociale, cui si risponde in modo superficial-cosmetico, oltre che chimico (con alcool o droghe), o farmacologico, invece che in modo introspettivo e trasformativo. Una solitudine che si traduce anche in realtà abitativa: basti guardare l’aumento esponenziale dei single, specie tra le donne, soprattutto quando vivano in ambiente urbano. E’ netta la percezione di una società lacerata, in cui crescono in parallelo il senso di smarrrimento in alcuni e il cinismo strumentale in altri, con risposte sempre più spesso superficiali, esteriori. Come se ridipingendo la casa se ne potessero sanare le crepe e le fondamenta.
Perché la lettura di ogni crisi personale tende a essere solo negativa? E’ come se nel nostro lessico quotidiano ne avessimo smarrito tutto il potenziale di positività: aspetto ancora più evidente nei giovani, in cui la fuga si polarizza non solo nel conformismo dell’abbigliamento e dei comportamenti, ma anche nella narcosi alcolica del sabato sera. Una fuga che sta diventando epidemica anche tra i giovanissimi, coinvolgendo le femmine ancora più dei maschi, in termini sia di aumento percentuale, sia di precocità di inizio. Perdendo così quel potenziale trasformativo ben presente e valorizzato in altre culture: l’etimologia ci svela, per esempio, che la parola greca “krìsis” significa ”giudizio, separazione, scelta”, e il verbo corrispondente, “krìnein” significa “separare, passare al setaccio”: la crisi ci può far paura perché ci obbliga a guardarci dentro, a guardare le nostre incompiutezze, le nostre parti irrisolte, le nostre parti d’ombra (“quello che non amiamo di noi”, diceva Carl Jung), come ben ricorda Luciano Manicardi in “L’umano soffrire” (Edizioni Qiqajon, 2006). Ci invita a lasciar andare quello che di noi ha fatto il proprio tempo, ad avere il coraggio di rimetterci in discussione, a passare al setaccio la nostra vita, separando le caratteristiche di qualità dalla pula, e cambiare. L’ideogramma cinese combina nel segno della crisi i concetti di opportunità e rischio: di nuovo sottolineando il potenziale trasformativo che per definizione presuppone il passaggio da uno stato interiore, prima che esteriore, a un altro.
Uomini e donne in fuga, dunque. In fuga da se stessi, pseudofelici di alienarsi nell’esteriorità, e nel conformismo dell’immagine, forse l’elemento più universale e trasversale di quest’ultimo decennio. Pseudofelici di galleggiare nella palude delle apparenze.
Chi fugge nell’esteriorità? Chi ha paura, anche, e forse soprattutto, di se stesso e della propria verità. Specialmente quando questa delude rispetto alle aspettative e ai sogni. Perché ci vuole coraggio, e tanto, per guardarsi dentro, oggi più di ieri, in cui un diverso senso etico e religioso della vita dava spessore ai cambiamenti e alle crisi delle diverse età dell’esistenza. E allora? Dovremmo far nostro quanto diceva Carl Jung: “Non è possibile vivere (il meriggio) o la sera della vita seguendo lo stesso programma del mattino, perché ciò che sino ad allora aveva grande importanza, ne avrà ben poca, e la verità del mattino costituisce l’errore della sera”.
D’altra parte, solo gli adulti e i vecchi che hanno il coraggio di attraversare con coerenza e coraggio le propria crisi, guardandole in faccia, ed esplorandone tutte le potenzialità, potranno insegnare ai giovani, con i fatti, il vero coraggio di vivere, senza più fughe.
Chirurgia estetica / Lifting Crisi esistenziale Riflessioni di vita