Gli ultimi raggi di sole calano sul lago di Kandy, alta sulle colline, nel cuore di giungla di Sri Lanka: isola di antico fascino, a sud dell’India. Nel cielo sale calma la luna piena. La folla è ordinata, silenziosa. Moltissimi i bambini, gli occhi grandi a scrutare il buio. Sul lungolago, che parte dal Tempio del Dente, bianchissimo, coperto di piccole luci, inizia la processione sacra: la Kandy Esala Perahera. Nel buio assoluto, appena attenuato dalla luna, partono per primi i danzatori del fuoco, adolescenti o addirittura bambini. Tutti in costumi magnifici, di seta splendente avorio e rosso. I più piccoli, di cinque o forse sei anni, in piedi sulle spalle di un adulto, fanno roteare con perizia bastoni con torce antiche fatte di cocco: danzano lievi nel buio, farfalle di fuoco. Subito dopo, ecco avvicinarsi uno sciame di torce, lucciole vibranti, che sembrano danzare nell’aria da sole, mosse da mani invisibili o dalla brezza leggera che soffia rinfrescante sul lago. Elfi della notte, sono ora i ragazzini più grandi a volteggiare nel buio: agilissimi, fanno roteare le torce legate al capo con un lungo filo sottile, quasi impercettibile, con lievi movimenti di velluto. Le torce continuano a danzare nell’aria, mentre loro scivolano a terra, rotolano, si rialzano, volteggiano con grazie e maestria. I suonatori, a decine, in costumi variopinti e scintillanti, danno il ritmo alle danze del fuoco. Seguono i ragazzi più grandi, sempre vestiti di sete leggere e splendenti, giallo chiaro, rosso e oro, con danze più elaborate e complesse, ripetute secondo antiche liturgie, consolidate dai secoli. Ogni danza ha un significato: è una storia narrata con il corpo, la mimica, la straordinaria finezza dei gesti e la musica. Nell’India antica, infatti, la danza, la musica e il teatro erano tre arti maggiori, mentre l’architettura, per esempio, era ritenuta arte minore. Danzare bene è un’abilità preziosa e ricercata: i danzatori, oltre un migliaio, arrivano da tutta l’isola. Ed è emozionante vedere l’impegno con cui ragazzini e bambini interpretano le coreografie, con una passione, un’attenzione, un’intensità davvero straordinarie. Spettacolo nello spettacolo, potenza e grazia, mascolinità e leggerezza si fondono nei movimenti in cui la luce dei corpi è esaltata dalla luminescenza delle sete: accese dalle vibrazioni delle torce, scolpite nel buio profondo della notte. Ai danzatori si alternano gli sbandieratori, che invece si muovono lenti, i corpi quasi immobili, i piedi che scivolano silenziosi sul terreno, a passi piccolissimi. A decine, sembrano un corpo unico: le gambe scintillanti, avvolte di seta avorio, una fascia rossa in vita, i toraci sottili e bruni che quasi scompaiono nel buio e le bandiere bianche, con simboli d’oro e granato, che si muovono insieme nell’aria. Solo le bandiere danzano, con minimi movimenti delle braccia. Una scenografia di luce e d’ombra, di potenza figurativa e simbolica straordinaria, immutata da centinaia di anni.
Ma ecco, finalmente! Nel sospiro di ammirazione generale, arrivano gli elefanti, rivestiti di broccati rossi o blu, con disegni in oro, la proboscide e il capo rivestiti di piccole luci. Da lontano, solo il capo è visibile. Da vicino, colpisce la ricchezza dei rivestimenti: i più preziosi, in sete e broccato d’oro e d’argento, rivestono gli elefanti che portano le reliquie sacre e gli stendardi dei templi più antichi, di oltre mille anni. Intanto i percussionisti, con gli antichi tamburi, si alternano a danzatori e sbandieratori, cosicché la musica è un fiume continuo, come il variegato mutare dei corpi, delle danze e dei riti. Gli elefanti avanzano lenti, maestosi. Alcuni sembrano danzare piano al ritmo della musica. I rivestimenti preziosi arrivano quasi a terra. Gli animali giganti si alternano agli elefantini, cuccioli deliziosi, tenerissimi con tutta quella bardatura di seta e d’oro.
Tutto sembra magico, ognuno è affascinato ed entusiasta. Ma ecco, mentre gli elefanti sfilano, l’occhio mi cade sulle zampe, a filo del terreno: sono legate tra loro da spesse catene. Forse per regolare i piccoli passi, forse per evitare incidenti: ma quella vista mi dà una stretta forte al cuore. Noi siamo felici. Ma loro, gli elefanti, sono felici? Non credo. Noi abbiamo le nostre passioni. Loro, rivivono oggi antiche e incomprese solitudini.
Uscendo, vedo appartato un piccolo elefante con il suo custode. Mi avvicino. Ho una mela in borsa, gliela tendo. Il piccolo l’annusa con la proboscide e apre la bocca: l’appoggio con gentilezza alla sua lingua. L’elefantino chiude gli occhi, mentre l’assapora: e, ne sono certa, ha sorriso.
Ma ecco, finalmente! Nel sospiro di ammirazione generale, arrivano gli elefanti, rivestiti di broccati rossi o blu, con disegni in oro, la proboscide e il capo rivestiti di piccole luci. Da lontano, solo il capo è visibile. Da vicino, colpisce la ricchezza dei rivestimenti: i più preziosi, in sete e broccato d’oro e d’argento, rivestono gli elefanti che portano le reliquie sacre e gli stendardi dei templi più antichi, di oltre mille anni. Intanto i percussionisti, con gli antichi tamburi, si alternano a danzatori e sbandieratori, cosicché la musica è un fiume continuo, come il variegato mutare dei corpi, delle danze e dei riti. Gli elefanti avanzano lenti, maestosi. Alcuni sembrano danzare piano al ritmo della musica. I rivestimenti preziosi arrivano quasi a terra. Gli animali giganti si alternano agli elefantini, cuccioli deliziosi, tenerissimi con tutta quella bardatura di seta e d’oro.
Tutto sembra magico, ognuno è affascinato ed entusiasta. Ma ecco, mentre gli elefanti sfilano, l’occhio mi cade sulle zampe, a filo del terreno: sono legate tra loro da spesse catene. Forse per regolare i piccoli passi, forse per evitare incidenti: ma quella vista mi dà una stretta forte al cuore. Noi siamo felici. Ma loro, gli elefanti, sono felici? Non credo. Noi abbiamo le nostre passioni. Loro, rivivono oggi antiche e incomprese solitudini.
Uscendo, vedo appartato un piccolo elefante con il suo custode. Mi avvicino. Ho una mela in borsa, gliela tendo. Il piccolo l’annusa con la proboscide e apre la bocca: l’appoggio con gentilezza alla sua lingua. L’elefantino chiude gli occhi, mentre l’assapora: e, ne sono certa, ha sorriso.
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