Inizialmente queste cellule nervose sono state localizzate nella corteccia motoria dei primati, scimmie e affini, nostri antenati, e poi confermate nell’uomo. Grazie al neurologo italiano Giacomo Rizzolatti, dell’Università di Parma, pioniere in queste ricerche, e al fiorire di studi che ne è seguito, si è compreso che i movimenti vengono prima “filmati” del cervello attraverso la vista e registrati dai neuroni motori i quali, grazie a queste registrazioni sui movimenti, permettono poi al bambino di eseguirli, di fatto mimandoli. In realtà l’azione dei neuroni specchio va oltre il movimento: sottende comportamenti complessi e le stesse emozioni che li sottendono.
I neuroni specchio sono infatti ben rappresentati anche in aree più arcaiche del cervello, come l’ipotalamo, dove mediano le reazioni di aggressività. Nell’animale da esperimento, la stimolazione di quei neuroni antichi scatena reazioni violentemente aggressive, persino quando il topo vede la propria immagine allo specchio e cerca di attaccarla.
Perché questi studi così raffinati e complessi dovrebbero interessarci? Perché descrivono un meccanismo di apprendimento universale, che ci interroga in modo più stringente sul nostro modo di educare. Se il bambino apprende innanzitutto filmando gli adulti che convivono con lui, o con cui interagisce, la domanda cardinale diventa: «Che esempio dò a mio figlio, a mia figlia?». Questa è una domanda millenaria, si dirà. Certo, ma la neurobiologia dei neuroni specchio ci aiuta a comprendere alcuni aspetti peculiari rilevanti che mettono in discussione la genitorialità contemporanea.
Immaginiamo di mettere una telecamera in casa, con registrazione continua, per una settimana o un mese. Quali sono i comportamenti registrati che il bambino vede con maggiore frequenza? Quali sono le emozioni, positive o negative, che li accompagnano? Se dovessimo attribuire un genere a quel film, quale sceglieremmo? E quale titolo sarebbe più adatto a ciascun filmato, a seconda delle emozioni dominanti?
Possiamo dichiarare quello che vogliamo, fare discorsi politicamente corretti, illuderci di essere i migliori genitori del mondo solo perché viziamo i nostri figli, ma la verità è una sola: imparano quello che vedono, la nostra verità più cruda, più luminosa o più conflittuale. Per esempio, quando siamo tristi o disperati, ma neghiamo di esserlo. Il bambino, prima in modo inconscio, poi sempre più consapevole, filma la nostra mimica, e rimarrà molto disturbato, preoccupato o ansioso per il conflitto che coglie tra quello che diciamo («va tutto bene») e l’angoscia che coglie dal volto, dallo sguardo, dal respiro, e perfino dall’odore di ansia, stress o paura che emaniamo.
Quel film polisensoriale diventa ancora più drammatico se il bambino cresce in una famiglia in cui il padre, la madre o entrambi sono molto aggressivi, urlano, si insultano o si picchiano. Quel film ripetuto nei mesi e negli anni sarà il paradigma, il prototipo del film che tenderà a riprodurre nei suoi stessi comportamenti, con gli amici e poi nella coppia.
La storia dei neuroni specchio ci consente una lettura neurobiologica dell’antico detto secondo cui «le colpe dei padri ricadranno sui figli», con un taglio peculiare: la forza, a volte coercitiva, che ha sul destino del figlio l’aver registrato un copione così pesante e violento fin dai primi anni, un imprinting negativo che finisce per “programmare” letteralmente i suoi comportamenti futuri se non interverranno protagonisti positivi – una nonna, un’insegnante, un allenatore – a migliorare il copione.
In positivo, vivere con genitori sereni, che si amano, si rispettano e si aiutano, che condividono l’etica della responsabilità in famiglia e sul lavoro; che sorridono, hanno toni di voce garbati e un lessico tenero, concreto, affettuoso, regala al figlio un ottimo paradigma di film su cui scrivere la propria storia. Jannik Sinner ne è un esempio luminoso.
Fermiamoci a riflettere, a guardare ogni giorno i fotogrammi del film che accompagna la nostra vita e con cui stiamo di fatto “programmando” il cervello dei nostri figli. Ancor più oggi, per contrastare il peso, spesso nefasto, di tutto quello che vedono sui social: nel bene e nel male, il vedere polisensoriale ci condiziona a ogni livello. Un auto-esame quotidiano, l’antico “esame di coscienza”, può stimolarci a metterci in discussione per trasmettere ai figli l’essenziale del saper vivere bene con l’esempio, con cuore e passione, umiltà e rispetto degli altri. E a limitare la vita digitale, a favore della vita reale.
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