«L’appuntamento con lei l’ho preso io!»: è questa l’overture di circa il 30 per cento degli uomini che accompagnano nel mio studio la moglie o la compagna, la figlia o la madre. Perché lo fanno? Quando? Come si comportano? Quando si muovono i padri, la questione è seria. Le prime volte mi preoccupavo: «Che ci fa un uomo qui, a portare la figlia dalla ginecologa? E la mamma dov’è?». Ora so che sono papà alfa.
«Non ci dormo la notte a pensare che mia figlia non può fare la cosa più bella del mondo!». L’uomo è un gigante, alto e robusto. Un duro nel lavoro, a vederlo. Ha quell’unica figlia, viene da molto lontano. «Sono tre anni che mia moglie e mia figlia girano l’Italia per questo dolore pazzesco che ha la ragazza, e non se ne viene fuori. I dottori dicono che non c’è niente, che è stressata, che ha bisogno di una psicologa. Ci è anche andata per un anno, ma il dolore ce l’ha sempre, attaccato come una tigna. S’è lasciata col ragazzo, che non ne poteva più. Non va più all’università, non esce con le amiche, sta a casa a piangere. Basta! ho detto a mia moglie, che è in crisi anche lei. Adesso me ne occupo io. E mi sono messo a cercare. Gliel’affido. La curi come se fosse sua figlia. Vi lascio, così vi parlate tra donne. La saluto dopo». Un ultimo sguardo alla figlia, dopo avermi osservata. E soppesata: «Chicca, fidati, sei in buone mani». Un guizzo di sguardo silenzioso, serio e profondo, a me, prima di uscire, e una consegna muta: «La curi col cuore». Uno sguardo dove si incontrano pudore di emozioni, imbarazzo, e un grumo di pensieri preoccupati: «Ho fatto la scelta giusta? Riuscirà a guarirla?».
La ragazza ha un dolore vulvare (“vulvodinia”) molto severo, spontaneo, che peggiora al contatto con i vestiti, quando sta seduta, quando si lava. I rapporti sono impossibili: «E’ come se mi entrasse un coltello: per forza mi blocco, non ce la posso fare», dice piangendo la ragazza, quando restiamo sole. «Tutto è iniziato dopo una forte cura antibiotica per la bronchite: mi è venuta una candida furiosa. E’ tornata tre volte, ed è cominciato questo dolore che va sempre peggio. Un incubo. Ho il terrore di non tornare normale mai più».
La visita conferma un dolore invalidante. Un problema raro? No, purtroppo. La vulvodinia interessa il 12-15% delle donne. La terapia è lunga e complessa: ci vogliono farmaci diversi, per il dolore che ormai è diventato malattia (“neuropatico”), per la depressione e l’ansia alle stelle, per la candida, per la risposta immunitaria aberrante che si è creata, per il microbiota intestinale e vaginale, alterati e patogeni. Ci vuole una fisioterapia specifica, per rilassare la contrattura muscolare di difesa che restringe e chiude ancor più l’entrata vaginale, rendendo i rapporti impossibili. Bisogna cambiare alimentazione, vestiario, stili di vita.
Il padre rientra in studio, per la terapia. Propongo la mia cura, in sinergia con un anestesista neurologo, di rara competenza sul fronte della sregolazione neurovegetativa che accompagna questo tipo di dolori cronici. La ragazza ha paura. E’ perplessa. Il padre no: «Chicca, la spiegazione che ci ha dato è logica. Mi convince: vedrai che guarisci».
Il padre l’accompagna sempre alle visite successive, solido, riservato, una roccia di fiducia, quando i miglioramenti si alternano a ricadute e momenti difficili. Parla poco. Partecipa molto. «Un papà d’altri tempi», penso. «Sa tenere il timone della famiglia». Come lui vedo altri papà positivi: un aiuto prezioso anche per la terapia. E’ giusto ricordarlo. E’ l’amore che cura, se si collabora tra medico, paziente e famiglia: lo diceva anche Platone (box). Il dolore della vulvodinia si riduce gradualmente: dopo un anno è scomparso. Ha un ragazzo nuovo, i rapporti sono tornati belli, è raggiante. Il papà l’accompagna a un ultimo controllo, stavolta con la mamma: «Anche mia moglie ci tiene a ringraziarla. E io di più: adesso che la Chicca sta bene, torno a dormire tranquillo».
«Non ci dormo la notte a pensare che mia figlia non può fare la cosa più bella del mondo!». L’uomo è un gigante, alto e robusto. Un duro nel lavoro, a vederlo. Ha quell’unica figlia, viene da molto lontano. «Sono tre anni che mia moglie e mia figlia girano l’Italia per questo dolore pazzesco che ha la ragazza, e non se ne viene fuori. I dottori dicono che non c’è niente, che è stressata, che ha bisogno di una psicologa. Ci è anche andata per un anno, ma il dolore ce l’ha sempre, attaccato come una tigna. S’è lasciata col ragazzo, che non ne poteva più. Non va più all’università, non esce con le amiche, sta a casa a piangere. Basta! ho detto a mia moglie, che è in crisi anche lei. Adesso me ne occupo io. E mi sono messo a cercare. Gliel’affido. La curi come se fosse sua figlia. Vi lascio, così vi parlate tra donne. La saluto dopo». Un ultimo sguardo alla figlia, dopo avermi osservata. E soppesata: «Chicca, fidati, sei in buone mani». Un guizzo di sguardo silenzioso, serio e profondo, a me, prima di uscire, e una consegna muta: «La curi col cuore». Uno sguardo dove si incontrano pudore di emozioni, imbarazzo, e un grumo di pensieri preoccupati: «Ho fatto la scelta giusta? Riuscirà a guarirla?».
La ragazza ha un dolore vulvare (“vulvodinia”) molto severo, spontaneo, che peggiora al contatto con i vestiti, quando sta seduta, quando si lava. I rapporti sono impossibili: «E’ come se mi entrasse un coltello: per forza mi blocco, non ce la posso fare», dice piangendo la ragazza, quando restiamo sole. «Tutto è iniziato dopo una forte cura antibiotica per la bronchite: mi è venuta una candida furiosa. E’ tornata tre volte, ed è cominciato questo dolore che va sempre peggio. Un incubo. Ho il terrore di non tornare normale mai più».
La visita conferma un dolore invalidante. Un problema raro? No, purtroppo. La vulvodinia interessa il 12-15% delle donne. La terapia è lunga e complessa: ci vogliono farmaci diversi, per il dolore che ormai è diventato malattia (“neuropatico”), per la depressione e l’ansia alle stelle, per la candida, per la risposta immunitaria aberrante che si è creata, per il microbiota intestinale e vaginale, alterati e patogeni. Ci vuole una fisioterapia specifica, per rilassare la contrattura muscolare di difesa che restringe e chiude ancor più l’entrata vaginale, rendendo i rapporti impossibili. Bisogna cambiare alimentazione, vestiario, stili di vita.
Il padre rientra in studio, per la terapia. Propongo la mia cura, in sinergia con un anestesista neurologo, di rara competenza sul fronte della sregolazione neurovegetativa che accompagna questo tipo di dolori cronici. La ragazza ha paura. E’ perplessa. Il padre no: «Chicca, la spiegazione che ci ha dato è logica. Mi convince: vedrai che guarisci».
Il padre l’accompagna sempre alle visite successive, solido, riservato, una roccia di fiducia, quando i miglioramenti si alternano a ricadute e momenti difficili. Parla poco. Partecipa molto. «Un papà d’altri tempi», penso. «Sa tenere il timone della famiglia». Come lui vedo altri papà positivi: un aiuto prezioso anche per la terapia. E’ giusto ricordarlo. E’ l’amore che cura, se si collabora tra medico, paziente e famiglia: lo diceva anche Platone (box). Il dolore della vulvodinia si riduce gradualmente: dopo un anno è scomparso. Ha un ragazzo nuovo, i rapporti sono tornati belli, è raggiante. Il papà l’accompagna a un ultimo controllo, stavolta con la mamma: «Anche mia moglie ci tiene a ringraziarla. E io di più: adesso che la Chicca sta bene, torno a dormire tranquillo».
Terapia oggi: per schiavi o per uomini liberi?
Platone, nel Gorgia, parla per la prima volta di terapia come “therapeía theôn”, cioè sollecitudine, attenzione, rispetto, cura degli dei e del divino. Successivamente, nell’Ippocrate, Platone ritorna sull’argomento e parla della “Therapeía toû sómatos, tês psychés”, “terapia del corpo e dell’anima”, in cui il medico dovrebbe avere, per il corpo e per l’anima, l’attenzione, la sollecitudine, la cura che merita la scintilla di divino che è in noi.
Nelle Leggi, Platone parla di due tipi di medicina: la prima, praticata dagli schiavi, è riservata agli schiavi, ai quali si cerca di togliere rapidamente i sintomi perché riprendano subito il lavoro; la seconda, praticata dagli uomini liberi, è la medicina per gli uomini liberi, ed è attenta al corpo, all’anima, ai rapporti familiari.
La medicina contemporanea, così concentrata a uccidere i sintomi, senza attenzione per la complessità del corpo, per l’anima e per i rapporti familiari è una medicina da schiavi, per corpi reificati. Riusciremo a far rivivere la medicina della sollecitudine, quella per gli uomini liberi?
Nelle Leggi, Platone parla di due tipi di medicina: la prima, praticata dagli schiavi, è riservata agli schiavi, ai quali si cerca di togliere rapidamente i sintomi perché riprendano subito il lavoro; la seconda, praticata dagli uomini liberi, è la medicina per gli uomini liberi, ed è attenta al corpo, all’anima, ai rapporti familiari.
La medicina contemporanea, così concentrata a uccidere i sintomi, senza attenzione per la complessità del corpo, per l’anima e per i rapporti familiari è una medicina da schiavi, per corpi reificati. Riusciremo a far rivivere la medicina della sollecitudine, quella per gli uomini liberi?
Dolore ai rapporti / Dispareunia Dolore vulvare e vulvodinia Genitori e figli Rapporto medico-paziente Riflessioni di vita