Scenario 2. «Un campo allestito da “Médecins sans frontières” al confine tra Thailandia e Cambogia. Due medici, Xavier Emmanuelli e Daniel Pavard, accolgono l’arrivo di un camion carico di persone ferite da colpi di mortaio. Il compito più urgente è di valutare il più in fretta possibile chi è curabile e chi no. In modo tecnico, professionale, senza troppi coinvolgimenti emozionali: e questo proprio per il bene di chi ha ancora qualche possibilità di sopravvivere. Di fronte a una giovane donna sventrata da un colpo di mortaio la diagnosi dei due medici è immediata e identica: non c’è nulla da fare. Ma mentre Xavier passa a un altro ferito, Daniel improvvisamente salta sulla piattaforma del camion, si pone dietro la donna ferita (che non aveva mai visto prima), la avvolge protettivo con le sue braccia lasciando che il viso di lei, traversato da sudori freddi, si appoggi sul suo petto, e comincia a parlarle delicatamente (senza che lei possa comprendere una sola parola) e a carezzarle i capelli. Morirà tra le braccia di uno sconosciuto, liberata non certo dalla morte né dai dolori, ma da quella paura che accompagna così spesso il morente: il terrore di morire solo, abbandonato». Questa la testimonianza di Xavier Emmanuelli (X. Emmanuelli, Prélude à la symphonie du nouveau monde, Odile Jakob, Paris 1998, pp. 99-123).
Ci sono momenti, i momenti estremi della vita, in cui tutto quello che possiamo fare non è più tecnico, o medico, o chirurgico: è solo umano. Eppure è proprio in questa dimensione che oggi vediamo le maggiori negligenze, i silenzi privi di emozione, le assenze: come se il fare o l’aver fatto “tutto il possibile” dal punto di vista clinico, medico o chirurgico, sia sufficiente a chiudere una vita e mettersi in pace la coscienza. Senza curarsi del come. Senza considerare che soprattutto nei casi gravi, a prognosi riservata, è del pari importante consentire che un parente, una figura amica stia vicino al malato: “Interferisce con la somministrazione delle cure!” è l’obiezione più frequente, oppure: “I parenti fanno solo confusione!”. Credo che con una giusta mediazione, una persona alla volta, sia non solo possibile ma doveroso consentire una presenza affettuosa. La cura non è fatta solo di farmaci o di intubazioni o defibrillatori, ma del potente analgesico che viene da una mano amica che accarezza, dallo sguardo affettuoso di un figlio, o di un padre o una madre. E’ fatta di presenza, di emozioni, di tenerezza, di dolcezza. Di presenza vera. Non c’è solitudine peggiore di avere un dolore tremendo, perché feriti, traumatizzati, o malati terminali, di sentirsi morire, e non avere nessuno di amato accanto a sé.
Nelle situazioni estreme, in cui un incidente d’auto o di guerra ci ferisce, anche gravemente, lontano da casa, lontano dalla famiglia, l’unico balsamo, l’unico analgesico è trovare un medico o un’infermiera capaci di compassione, anche quando, come nel secondo caso descritto (ma anche nelle molte situazioni in cui in un pronto soccorso arrivano più vittime gravi di un incidente stradale), bisogna scegliere rapidamente chi aiutare per primo, e chi lasciare. Anche nella concitazione dell’emergenza, ma ancor più quando il medico vede con lucidità che la situazione è gravissima, è indispensabile riuscire a mantenere un atteggiamento umano. Anche per poco. E, se ci sono parenti, consentire senz’altro la ricomposizione degli affetti. A volte poche ore, pochi minuti, sono sufficienti per cambiare un addio: che da disperato, solo, in tragico abbandono, può diventare un addio accompagnato con affetto, con tenerezza, un po’ più pacificante per chi resta e per chi muore.
“Umanizzare l’ospedale” non significa solo mettere il malato al centro delle cure, come del resto dovrebbe essere e come politicamente si dichiara. Significa dare sostanza vera ad altrimenti vane parole e illusorie promesse. Significa rispettare i bisogni umani essenziali in tutto il percorso di cura, che include il morire. Restiamo persone, con un cuore e un’anima, non solo in reparto o in corsia, ma anche nelle emergenze e nelle rianimazioni, e soprattutto nel momento estremo: è la dignità del morire che dobbiamo riconquistare nei nostri ospedali, riconoscendo alla capacità di compassione e di presenza affettuosa, e, per chi crede, di preghiera, il ruolo essenziale che aiuti a superare il grande passo con meno angoscia e più consolazione e conforto.
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