I primogeniti sono davvero più intelligenti dei loro fratelli? E se si, perché? Una nutrita serie di studi ha dimostrato che i primogeniti hanno mediamente tre punti di quoziente intellettivo (QI) in più rispetto ai secondogeniti, e questi uno in più rispetto ai figli successivi. Inoltre i primogeniti tendono ad avere un curriculum di studi più brillante: alla prestigiosa università di Harvard, per esempio, i primogeniti, maschi o femmine, sono la vasta maggioranza. In uno studio sui consigli di amministrazione delle aziende americane più prestigiose, i primogeniti sono risultati essere il 43 per cento, i mediani il 33 per cento e gli ultimi nati il 23 per cento.
Se questa differenza esiste, a che cosa è dovuta? A fattori biologici o correlati al contesto familiare? E’ generalizzata o situazionale? E l’avere un QI più elevato dà più chances di felicità?
Sui (possibili) vantaggi della primogenitura si scontrano diverse scuole di pensiero, di cui ciascuna contiene una parte di verità. La prima sostiene l’ipotesi biologica: i primi nati hanno in gravidanza le condizioni ottimali. La mamma è più giovane e in buona salute, la gravidanza è più fisiologica; si conclude in genere a termine, con un bimbo di buon peso e sano. In effetti la probabilità di una gravidanza patologica, per esempio complicata da ipertensione, diabete gestazionale, eclampsia, prematurità e così via, aumenta con l’età della madre e nelle gravidanze successive. Sono crescenti le evidenze che mostrano come il nascere a termine, sani, da una gravidanza normale, sia il primo requisito per essere sia più fisicamente sani a lungo, anche nella vita adulta, sia meno vulnerabili a depressione, ansia e disturbi cognitivi. Il questi casi, la migliore salute fisica e psichica, a parità di ereditarietà, è garantita da un migliore sviluppo neurobiologico prenatale. Sarebbe allora innanzitutto la qualità di quei nove mesi ad ottimizzare l’espressione dei talenti genetici, traducendosi in migliori prestazioni emotive e intellettuali, oltre che in una più solida efficienza immunitaria e cardiovascolare, giusto per menzionare due ambiti in cui le ricerche stanno dando risultati di grande interesse.
Tutto merito della biologia? Non solo. Un poderoso studio appena pubblicato su Science da P. Kristensen e T. Bjerkedal, due ricercatori norvegesi, su ben 250.000 coscritti, mostra una diversa lettura della realtà: non è tanto (o solo) la primogenitura in sé, quanto il “rango sociale” all’interno della famiglia il vero determinante del migliore sviluppo intellettuale di alcuni figli rispetto ad altri.
Il rango sociale è a sua volta determinato da molte variabili: l’ordine di nascita comunque, ma stavolta per ragioni psicologiche. Perché, con qualche eccezione dovuta ad errori contraccettivi, il primogenito è il figlio più desiderato, cui i genitori (e i nonni) dedicano la maggiori e più fresche attenzioni fisiche ed emotive. E’ anche il figlio su cui si polarizzano le maggiori aspettative: incoraggianti, se lievi, pesantissime se al figlio viene chiesto, più o meno consciamente, di realizzare le parti irrisolte o frustrate dei genitori. In questo caso sono in agguato l’ansia di inadeguatezza, la paura di non essere amato se non soddisferà le aspettative genitoriali, un sostanziale senso di solitudine e una depressione che può arrivare a paralizzare il raggiungimento di ogni obiettivo. Tutto bene invece se il primogenito è sereno e sufficientemente o molto dotato: in tal caso la sinergia tra aspettative positive, incoraggiamenti e ricompense, in termini di amore, gratificazioni, coccole e sintonie, può far sbocciare al meglio i talenti del bambino o della bambina, con risultati molto soddisfacenti in termini sia di risultati scolastici e/o sportivi, sia professionali e di carriera. E se anche nascono altri figli, i risultati positivi dell’investimento prioritario che i genitori hanno fatto su quel figlio, porta a mantenere in qualche modo un’attenzione privilegiata sempre sul primogenito. Se poi le aspettative si sono coniugate ad un amore solido e sano, la primogenitura tende ad associarsi a (ma non garantisce!) una vita mediamente più solida e più serena, se non più felice.
Le aspettative si allentano invece decisamente per i figli successivi fino ad ammorbidirsi massimamente con l’ultimo nato, specie se intercorrono diversi anni dal primo. E sarebbe questa una delle ragioni per cui gli ultimi nati vanno meno bene a scuola, ma sono più “simpatici”, divertenti, curiosi e tentati da professioni meno formali, con i mediani a fare un po’ il jolly, a seconda dei talenti personali e del rango conquistato nella famiglia.
Tuttavia per varie ragioni il primogenito può non essere il figlio più intelligente: per minori affinità emotive e caratteriali con uno o entrambi i genitori, per personalità più “difficile”, o, semplicemente, per minori talenti o minore simpatia rispetto ai figli successivi. Oppure perché concepito in un momento emotivamente più difficile della coppia parentale. Ecco che allora può essere il secondogenito, o l’ultimo nato, ad assumere il rango di figlio “numero uno”, di primus inter pares, a dispetto dell’ordine di nascita.
In effetti, ad ogni figlio che nasce, due forze opposte vanno ad agire sullo sviluppo intellettuale del primo: da un lato il suo ambiente intellettuale ed emotivo è “diluito”, e ulteriormente diviso a seconda del numero di fratelli che lo seguono, dall’altro perde il cosiddetto “handicap dell’ultimo nato”, e comincia ad agire anche come esempio e stimolo intellettuale per il fratellino o i fratellini più piccoli. In tutto questo, molto fa l’atmosfera emotiva della famiglia, e quanto i genitori aiutino i figli a sviluppare non solo i loro talenti intellettuali, ma anche la loro intelligenza emotiva, ossia la capacità di sintonizzarsi sulle emozioni e i sentimenti degli altri, in particolare fratelli e poi amici e compagni di gioco, comprendendoli e rispettandoli. Quell’intelligenza emotiva che poi si coniuga a relazioni d’affetto e d’amore più gratificanti, premessa per una vita più felice.
E allora? La primogenitura non è in sé un destino, come lo poteva essere ai tempi delle eredità basate su legislazioni medioevali. E’ un’occasione di ottimizzazione dei talenti. Sta ai genitori fare un uso intelligente ed emotivamente sano della possibilità di dare ad ogni figlio tutte le chances per essere compiutamente e felicemente se stesso, al di là della primogenitura e del QI.
Se questa differenza esiste, a che cosa è dovuta? A fattori biologici o correlati al contesto familiare? E’ generalizzata o situazionale? E l’avere un QI più elevato dà più chances di felicità?
Sui (possibili) vantaggi della primogenitura si scontrano diverse scuole di pensiero, di cui ciascuna contiene una parte di verità. La prima sostiene l’ipotesi biologica: i primi nati hanno in gravidanza le condizioni ottimali. La mamma è più giovane e in buona salute, la gravidanza è più fisiologica; si conclude in genere a termine, con un bimbo di buon peso e sano. In effetti la probabilità di una gravidanza patologica, per esempio complicata da ipertensione, diabete gestazionale, eclampsia, prematurità e così via, aumenta con l’età della madre e nelle gravidanze successive. Sono crescenti le evidenze che mostrano come il nascere a termine, sani, da una gravidanza normale, sia il primo requisito per essere sia più fisicamente sani a lungo, anche nella vita adulta, sia meno vulnerabili a depressione, ansia e disturbi cognitivi. Il questi casi, la migliore salute fisica e psichica, a parità di ereditarietà, è garantita da un migliore sviluppo neurobiologico prenatale. Sarebbe allora innanzitutto la qualità di quei nove mesi ad ottimizzare l’espressione dei talenti genetici, traducendosi in migliori prestazioni emotive e intellettuali, oltre che in una più solida efficienza immunitaria e cardiovascolare, giusto per menzionare due ambiti in cui le ricerche stanno dando risultati di grande interesse.
Tutto merito della biologia? Non solo. Un poderoso studio appena pubblicato su Science da P. Kristensen e T. Bjerkedal, due ricercatori norvegesi, su ben 250.000 coscritti, mostra una diversa lettura della realtà: non è tanto (o solo) la primogenitura in sé, quanto il “rango sociale” all’interno della famiglia il vero determinante del migliore sviluppo intellettuale di alcuni figli rispetto ad altri.
Il rango sociale è a sua volta determinato da molte variabili: l’ordine di nascita comunque, ma stavolta per ragioni psicologiche. Perché, con qualche eccezione dovuta ad errori contraccettivi, il primogenito è il figlio più desiderato, cui i genitori (e i nonni) dedicano la maggiori e più fresche attenzioni fisiche ed emotive. E’ anche il figlio su cui si polarizzano le maggiori aspettative: incoraggianti, se lievi, pesantissime se al figlio viene chiesto, più o meno consciamente, di realizzare le parti irrisolte o frustrate dei genitori. In questo caso sono in agguato l’ansia di inadeguatezza, la paura di non essere amato se non soddisferà le aspettative genitoriali, un sostanziale senso di solitudine e una depressione che può arrivare a paralizzare il raggiungimento di ogni obiettivo. Tutto bene invece se il primogenito è sereno e sufficientemente o molto dotato: in tal caso la sinergia tra aspettative positive, incoraggiamenti e ricompense, in termini di amore, gratificazioni, coccole e sintonie, può far sbocciare al meglio i talenti del bambino o della bambina, con risultati molto soddisfacenti in termini sia di risultati scolastici e/o sportivi, sia professionali e di carriera. E se anche nascono altri figli, i risultati positivi dell’investimento prioritario che i genitori hanno fatto su quel figlio, porta a mantenere in qualche modo un’attenzione privilegiata sempre sul primogenito. Se poi le aspettative si sono coniugate ad un amore solido e sano, la primogenitura tende ad associarsi a (ma non garantisce!) una vita mediamente più solida e più serena, se non più felice.
Le aspettative si allentano invece decisamente per i figli successivi fino ad ammorbidirsi massimamente con l’ultimo nato, specie se intercorrono diversi anni dal primo. E sarebbe questa una delle ragioni per cui gli ultimi nati vanno meno bene a scuola, ma sono più “simpatici”, divertenti, curiosi e tentati da professioni meno formali, con i mediani a fare un po’ il jolly, a seconda dei talenti personali e del rango conquistato nella famiglia.
Tuttavia per varie ragioni il primogenito può non essere il figlio più intelligente: per minori affinità emotive e caratteriali con uno o entrambi i genitori, per personalità più “difficile”, o, semplicemente, per minori talenti o minore simpatia rispetto ai figli successivi. Oppure perché concepito in un momento emotivamente più difficile della coppia parentale. Ecco che allora può essere il secondogenito, o l’ultimo nato, ad assumere il rango di figlio “numero uno”, di primus inter pares, a dispetto dell’ordine di nascita.
In effetti, ad ogni figlio che nasce, due forze opposte vanno ad agire sullo sviluppo intellettuale del primo: da un lato il suo ambiente intellettuale ed emotivo è “diluito”, e ulteriormente diviso a seconda del numero di fratelli che lo seguono, dall’altro perde il cosiddetto “handicap dell’ultimo nato”, e comincia ad agire anche come esempio e stimolo intellettuale per il fratellino o i fratellini più piccoli. In tutto questo, molto fa l’atmosfera emotiva della famiglia, e quanto i genitori aiutino i figli a sviluppare non solo i loro talenti intellettuali, ma anche la loro intelligenza emotiva, ossia la capacità di sintonizzarsi sulle emozioni e i sentimenti degli altri, in particolare fratelli e poi amici e compagni di gioco, comprendendoli e rispettandoli. Quell’intelligenza emotiva che poi si coniuga a relazioni d’affetto e d’amore più gratificanti, premessa per una vita più felice.
E allora? La primogenitura non è in sé un destino, come lo poteva essere ai tempi delle eredità basate su legislazioni medioevali. E’ un’occasione di ottimizzazione dei talenti. Sta ai genitori fare un uso intelligente ed emotivamente sano della possibilità di dare ad ogni figlio tutte le chances per essere compiutamente e felicemente se stesso, al di là della primogenitura e del QI.
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