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Il fascino di una lenta autodistruzione

16/04/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Ormai è un bollettino di guerra. Infettivo come un’epidemia, il virus dell’autodistruzione sta contagiando in numero crescente i nostri ragazzi. In modo acuto, nelle stragi del sabato sera, che spesso sono solo la conclusione, violenta e irreversibile, di un’autodistruzione iniziata mesi o anni prima. In modo più subdolo, ma non per questo meno drammatico negli esiti, nel crescente uso di sostanze psicotrope, dannose per l’intera salute, oltre che per la psiche: alcool, cocaina, eroina, e cocktail più o meno micidiali di queste e altre sostanze. Dei loro effetti sul cervello, sull’apprendimento e sul comportamento si è già parlato.
Merita una riflessione il perché di questa deriva, di questo gusto per l’autodistruzione, di questo piacere inquieto di perdersi in un mare di alcool o nell’eccitazione della polvere bianca che ormai è utilizzata da ben tre studenti su dieci delle scuole secondarie, secondo le ultime indagini condotte in alcune città italiane.
Quali sono dunque i fattori più forti che predispongono un ragazzo e una ragazza a questo smarrimento psichico e comportamentale che può diventare un destino lentamente suicida? Non tanto o solo nel senso acuto di autolesionismo rapido e definitivo, ma come uccisione del proprio futuro, delle proprie possibilità, dell’opportunità di far sbocciare i propri talenti e di sentirsi felice nell’esprimere le proprie attitudini. Un’autodistruzione che trasforma i nostri ragazzi in tanti zombie, con un’indifferenza affettiva verso se stessi e verso gli altri, come se l’amore fosse scomparso dalle loro vite: dinamica che è sotto gli occhi di tutti.
L’effetto imitazione è senz’altro un fattore predisponente: mai come oggi gli adolescenti sono stati conformisti in modo mortifero. Il gruppo dei pari è il paradigma di riferimento, mentre il mondo degli adulti sta perdendo credibilità e autorevolezza in modo esponenziale. E se il leader del gruppo fa uso di droga, gli altri seguono a ruota. Soprattutto se è lui (o lei) a proporla: cosa molto frequente, per il sostanziale vantaggio che ogni “x” nuovi utilizzatori reclutati avrà la droga gratis. A torto si dice che la cocaina non dà dipendenza: certo, non la dà con la modalità biochimica dell’eroina. Tuttavia il complesso quadro della dipendenza non è solo strettamente od esclusivamente neurochimico: coinvolge anche aspetti psichici, comportamentali e relazionali di rinforzo, che a loro volta si radicano poi in persistenti circuiti neurobiologici (come abbiamo visto per l’alcool). In questo caso la dipendenza psichica crea poi il substrato della dipendenza fisica. Per esempio: il meccanismo della “ricompensa”, ottenuta sia mediante il piacere immediato provato, sia attraverso l’approvazione del gruppo, la condivisione della “liturgia” trasgressiva e l’emozione di una disinibizione esaltante ed eccitata, diventa un potentissimo fattore di rinforzo del comportamento stesso. Condividere la passione triste di un’ubriacatura, o di uno sballo, costituisce pian piano una complessa dipendenza, da cui è sempre più difficile liberarsi, perché è diventato nel frattempo quasi impossibile pensarsi in altro modo (e agire poi di conseguenza).
L’effetto paura/sfiducia nel futuro è il secondo, potentissimo fattore di rischio: hanno la massima probabilità di sperimentare e continuare con alcool e droghe due gruppi di ragazzi.
Da un lato, quelli già emarginati dal percorso scolastico, che trovano nell’identità negativa della trasgressione, della violazione del limite, dell’esasperazione di comportamenti socialmente riprovevoli o francamente sbagliati un modo paradosso di recuperare autostima ai propri occhi e a quelli del gruppo (modalità che si potenziano reciprocamente). Gli anni e le opportunità perdute nel periodo critico dell’adolescenza non saranno (quasi) più recuperabili: la maggior parte di questi ragazzi proviene da famiglie modeste e non in grado di supplire personalmente al vuoto di educazione, di linguaggio e di pensiero, nonché al baratro culturale che si è scavato negli anni nella loro mente e nel loro futuro. Per molti di loro, di conseguenza, saranno possibili solo lavori di basso profilo, mal pagati e a minimo grado di soddisfazione, con il risultato di un’ulteriore frustrazione che aumenta il bisogno di illusori paradisi artificiali.
Dall’altro, ragazzi di ogni livello sociale che si sentono soli, per i quali la famiglia anagrafica non esiste né dal punto di vista affettivo né, tanto meno, dal punto di vista della condivisione di un progetto su di sé convincente e realizzabile. Che non hanno trovato in casa quel calore affettuoso e attento, quella presenza sollecita e accogliente ma anche normativa, che aiutano il ragazzo a costruirsi un Io solido, capace di porsi degli obiettivi, nello studio, nel lavoro, nello sport, negli hobbies, e di darsi delle regole per perseguirli fino a realizzare i propri sogni. Addirittura, quando ascoltati, molti di questi ragazzi dicono di non avere alcun sogno sul futuro, che è visto come uno scenario scuro e senza luce. E rispondono alla loro depressione evidente con un’autoterapia paradossa, di gruppo (gli amici) e di sostanze psicoattive (che li illudono di sentirsi meglio, almeno nel breve termine).
Di converso, i ragazzi che non si fanno tentare dal virus dell’autodistruzione hanno le caratteristiche opposte: in famiglia si sentono amati, ascoltati, seguiti, rimproverati anche, quando serve. Le loro trasgressioni iniziali non passano inosservate: il genitore corre rapidamente ai ripari, si attiva, cerca di capire dove stia il punto di vulnerabilità, dove sia la richiesta di aiuto, e quando il polso forte sia necessario e vada usato con fermezza. E ha il coraggio per far capire che l’amore, anche genitoriale, ha bisogno non solo di tenerezza e sollecitudine ma anche di regole e divieti, come le strade hanno bisogno di semafori rossi e verdi, che vanno rispettati, per evitare il caos o il suicidio di gruppo, mimetizzato da strage del sabato sera.
E’ da evitare come la peste l’autorassicurante: “Tanto tutti lo fanno, passerà”. Non va banalizzato l’insuccesso scolastico né vanno demonizzati gli insegnanti per principio, come moltissimi genitori tendono oggi a fare. Ci può essere l’insegnante impreparato o che va in rotta di collisione caratteriale con il ragazzo (e viceversa): ma si tratta di una materia. Quando il rendimento scolastico è carente su tutti i fronti, è la famiglia che deve fare un serissimo esame di coscienza. Perché la scuola non è un parcheggio in attesa di rottamazione (anche se per molti lo sta diventando), ma una palestra dove allenarsi con gusto per la vita. E il comportamento a scuola, come a casa, la famosa “condotta” di una volta, dovrebbe tornare ad essere un indicatore prezioso di rischio adolescenziale. Chi sa rispettare le regole, e assumere comportamenti adeguati al contesto in cui si trova, sa anche governare istinti e impulsi. Può trasgredire, ma non è così alla deriva di se stesso da fare della trasgressione la regola e dell’autodistruzione il paradigma di un’esistenza che ha così paura del futuro da preferire la fuga nell’autoannientamento.
Sta a noi capire questa paura e aiutare i nostri ragazzi a comprenderla e superarla. Non con la rassicurazione continua e l’iperprotezione a oltranza: ma incoraggiandoli a crescere, a svolgere i loro compiti, ad assumersi gradualmente le loro responsabilità, ad affrontare le difficoltà piccole e grandi, della scuola e della vita, senza smussarle o rimuoverle al posto loro. Allenandoli fin da piccoli a superare gli ostacoli: con noi vicini e affettuosi, certo, ma con le loro gambe, il loro allenamento quotidiano, il loro coraggio.

Adolescenti e giovani Alcol Dipendenze, droghe e doping Educazione Riflessioni di vita

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