Ormai è un bollettino di guerra. Infettivo come un’epidemia, il virus dell’autodistruzione sta contagiando in numero crescente i nostri ragazzi. In modo acuto, nelle stragi del sabato sera, che spesso sono solo la conclusione, violenta e irreversibile, di un’autodistruzione iniziata mesi o anni prima. In modo più subdolo, ma non per questo meno drammatico negli esiti, nel crescente uso di sostanze psicotrope, dannose per l’intera salute, oltre che per la psiche: alcool, cocaina, eroina, e cocktail più o meno micidiali di queste e altre sostanze. Dei loro effetti sul cervello, sull’apprendimento e sul comportamento si è già parlato.
Merita una riflessione il perché di questa deriva, di questo gusto per l’autodistruzione, di questo piacere inquieto di perdersi in un mare di alcool o nell’eccitazione della polvere bianca che ormai è utilizzata da ben tre studenti su dieci delle scuole secondarie, secondo le ultime indagini condotte in alcune città italiane.
Quali sono dunque i fattori più forti che predispongono un ragazzo e una ragazza a questo smarrimento psichico e comportamentale che può diventare un destino lentamente suicida? Non tanto o solo nel senso acuto di autolesionismo rapido e definitivo, ma come uccisione del proprio futuro, delle proprie possibilità, dell’opportunità di far sbocciare i propri talenti e di sentirsi felice nell’esprimere le proprie attitudini. Un’autodistruzione che trasforma i nostri ragazzi in tanti zombie, con un’indifferenza affettiva verso se stessi e verso gli altri, come se l’amore fosse scomparso dalle loro vite: dinamica che è sotto gli occhi di tutti.
L’effetto imitazione è senz’altro un fattore predisponente: mai come oggi gli adolescenti sono stati conformisti in modo mortifero. Il gruppo dei pari è il paradigma di riferimento, mentre il mondo degli adulti sta perdendo credibilità e autorevolezza in modo esponenziale. E se il leader del gruppo fa uso di droga, gli altri seguono a ruota. Soprattutto se è lui (o lei) a proporla: cosa molto frequente, per il sostanziale vantaggio che ogni “x” nuovi utilizzatori reclutati avrà la droga gratis. A torto si dice che la cocaina non dà dipendenza: certo, non la dà con la modalità biochimica dell’eroina. Tuttavia il complesso quadro della dipendenza non è solo strettamente od esclusivamente neurochimico: coinvolge anche aspetti psichici, comportamentali e relazionali di rinforzo, che a loro volta si radicano poi in persistenti circuiti neurobiologici (come abbiamo visto per l’alcool). In questo caso la dipendenza psichica crea poi il substrato della dipendenza fisica. Per esempio: il meccanismo della “ricompensa”, ottenuta sia mediante il piacere immediato provato, sia attraverso l’approvazione del gruppo, la condivisione della “liturgia” trasgressiva e l’emozione di una disinibizione esaltante ed eccitata, diventa un potentissimo fattore di rinforzo del comportamento stesso. Condividere la passione triste di un’ubriacatura, o di uno sballo, costituisce pian piano una complessa dipendenza, da cui è sempre più difficile liberarsi, perché è diventato nel frattempo quasi impossibile pensarsi in altro modo (e agire poi di conseguenza).
L’effetto paura/sfiducia nel futuro è il secondo, potentissimo fattore di rischio: hanno la massima probabilità di sperimentare e continuare con alcool e droghe due gruppi di ragazzi.
Da un lato, quelli già emarginati dal percorso scolastico, che trovano nell’identità negativa della trasgressione, della violazione del limite, dell’esasperazione di comportamenti socialmente riprovevoli o francamente sbagliati un modo paradosso di recuperare autostima ai propri occhi e a quelli del gruppo (modalità che si potenziano reciprocamente). Gli anni e le opportunità perdute nel periodo critico dell’adolescenza non saranno (quasi) più recuperabili: la maggior parte di questi ragazzi proviene da famiglie modeste e non in grado di supplire personalmente al vuoto di educazione, di linguaggio e di pensiero, nonché al baratro culturale che si è scavato negli anni nella loro mente e nel loro futuro. Per molti di loro, di conseguenza, saranno possibili solo lavori di basso profilo, mal pagati e a minimo grado di soddisfazione, con il risultato di un’ulteriore frustrazione che aumenta il bisogno di illusori paradisi artificiali.
Dall’altro, ragazzi di ogni livello sociale che si sentono soli, per i quali la famiglia anagrafica non esiste né dal punto di vista affettivo né, tanto meno, dal punto di vista della condivisione di un progetto su di sé convincente e realizzabile. Che non hanno trovato in casa quel calore affettuoso e attento, quella presenza sollecita e accogliente ma anche normativa, che aiutano il ragazzo a costruirsi un Io solido, capace di porsi degli obiettivi, nello studio, nel lavoro, nello sport, negli hobbies, e di darsi delle regole per perseguirli fino a realizzare i propri sogni. Addirittura, quando ascoltati, molti di questi ragazzi dicono di non avere alcun sogno sul futuro, che è visto come uno scenario scuro e senza luce. E rispondono alla loro depressione evidente con un’autoterapia paradossa, di gruppo (gli amici) e di sostanze psicoattive (che li illudono di sentirsi meglio, almeno nel breve termine).
Di converso, i ragazzi che non si fanno tentare dal virus dell’autodistruzione hanno le caratteristiche opposte: in famiglia si sentono amati, ascoltati, seguiti, rimproverati anche, quando serve. Le loro trasgressioni iniziali non passano inosservate: il genitore corre rapidamente ai ripari, si attiva, cerca di capire dove stia il punto di vulnerabilità, dove sia la richiesta di aiuto, e quando il polso forte sia necessario e vada usato con fermezza. E ha il coraggio per far capire che l’amore, anche genitoriale, ha bisogno non solo di tenerezza e sollecitudine ma anche di regole e divieti, come le strade hanno bisogno di semafori rossi e verdi, che vanno rispettati, per evitare il caos o il suicidio di gruppo, mimetizzato da strage del sabato sera.
E’ da evitare come la peste l’autorassicurante: “Tanto tutti lo fanno, passerà”. Non va banalizzato l’insuccesso scolastico né vanno demonizzati gli insegnanti per principio, come moltissimi genitori tendono oggi a fare. Ci può essere l’insegnante impreparato o che va in rotta di collisione caratteriale con il ragazzo (e viceversa): ma si tratta di una materia. Quando il rendimento scolastico è carente su tutti i fronti, è la famiglia che deve fare un serissimo esame di coscienza. Perché la scuola non è un parcheggio in attesa di rottamazione (anche se per molti lo sta diventando), ma una palestra dove allenarsi con gusto per la vita. E il comportamento a scuola, come a casa, la famosa “condotta” di una volta, dovrebbe tornare ad essere un indicatore prezioso di rischio adolescenziale. Chi sa rispettare le regole, e assumere comportamenti adeguati al contesto in cui si trova, sa anche governare istinti e impulsi. Può trasgredire, ma non è così alla deriva di se stesso da fare della trasgressione la regola e dell’autodistruzione il paradigma di un’esistenza che ha così paura del futuro da preferire la fuga nell’autoannientamento.
Sta a noi capire questa paura e aiutare i nostri ragazzi a comprenderla e superarla. Non con la rassicurazione continua e l’iperprotezione a oltranza: ma incoraggiandoli a crescere, a svolgere i loro compiti, ad assumersi gradualmente le loro responsabilità, ad affrontare le difficoltà piccole e grandi, della scuola e della vita, senza smussarle o rimuoverle al posto loro. Allenandoli fin da piccoli a superare gli ostacoli: con noi vicini e affettuosi, certo, ma con le loro gambe, il loro allenamento quotidiano, il loro coraggio.
Merita una riflessione il perché di questa deriva, di questo gusto per l’autodistruzione, di questo piacere inquieto di perdersi in un mare di alcool o nell’eccitazione della polvere bianca che ormai è utilizzata da ben tre studenti su dieci delle scuole secondarie, secondo le ultime indagini condotte in alcune città italiane.
Quali sono dunque i fattori più forti che predispongono un ragazzo e una ragazza a questo smarrimento psichico e comportamentale che può diventare un destino lentamente suicida? Non tanto o solo nel senso acuto di autolesionismo rapido e definitivo, ma come uccisione del proprio futuro, delle proprie possibilità, dell’opportunità di far sbocciare i propri talenti e di sentirsi felice nell’esprimere le proprie attitudini. Un’autodistruzione che trasforma i nostri ragazzi in tanti zombie, con un’indifferenza affettiva verso se stessi e verso gli altri, come se l’amore fosse scomparso dalle loro vite: dinamica che è sotto gli occhi di tutti.
L’effetto imitazione è senz’altro un fattore predisponente: mai come oggi gli adolescenti sono stati conformisti in modo mortifero. Il gruppo dei pari è il paradigma di riferimento, mentre il mondo degli adulti sta perdendo credibilità e autorevolezza in modo esponenziale. E se il leader del gruppo fa uso di droga, gli altri seguono a ruota. Soprattutto se è lui (o lei) a proporla: cosa molto frequente, per il sostanziale vantaggio che ogni “x” nuovi utilizzatori reclutati avrà la droga gratis. A torto si dice che la cocaina non dà dipendenza: certo, non la dà con la modalità biochimica dell’eroina. Tuttavia il complesso quadro della dipendenza non è solo strettamente od esclusivamente neurochimico: coinvolge anche aspetti psichici, comportamentali e relazionali di rinforzo, che a loro volta si radicano poi in persistenti circuiti neurobiologici (come abbiamo visto per l’alcool). In questo caso la dipendenza psichica crea poi il substrato della dipendenza fisica. Per esempio: il meccanismo della “ricompensa”, ottenuta sia mediante il piacere immediato provato, sia attraverso l’approvazione del gruppo, la condivisione della “liturgia” trasgressiva e l’emozione di una disinibizione esaltante ed eccitata, diventa un potentissimo fattore di rinforzo del comportamento stesso. Condividere la passione triste di un’ubriacatura, o di uno sballo, costituisce pian piano una complessa dipendenza, da cui è sempre più difficile liberarsi, perché è diventato nel frattempo quasi impossibile pensarsi in altro modo (e agire poi di conseguenza).
L’effetto paura/sfiducia nel futuro è il secondo, potentissimo fattore di rischio: hanno la massima probabilità di sperimentare e continuare con alcool e droghe due gruppi di ragazzi.
Da un lato, quelli già emarginati dal percorso scolastico, che trovano nell’identità negativa della trasgressione, della violazione del limite, dell’esasperazione di comportamenti socialmente riprovevoli o francamente sbagliati un modo paradosso di recuperare autostima ai propri occhi e a quelli del gruppo (modalità che si potenziano reciprocamente). Gli anni e le opportunità perdute nel periodo critico dell’adolescenza non saranno (quasi) più recuperabili: la maggior parte di questi ragazzi proviene da famiglie modeste e non in grado di supplire personalmente al vuoto di educazione, di linguaggio e di pensiero, nonché al baratro culturale che si è scavato negli anni nella loro mente e nel loro futuro. Per molti di loro, di conseguenza, saranno possibili solo lavori di basso profilo, mal pagati e a minimo grado di soddisfazione, con il risultato di un’ulteriore frustrazione che aumenta il bisogno di illusori paradisi artificiali.
Dall’altro, ragazzi di ogni livello sociale che si sentono soli, per i quali la famiglia anagrafica non esiste né dal punto di vista affettivo né, tanto meno, dal punto di vista della condivisione di un progetto su di sé convincente e realizzabile. Che non hanno trovato in casa quel calore affettuoso e attento, quella presenza sollecita e accogliente ma anche normativa, che aiutano il ragazzo a costruirsi un Io solido, capace di porsi degli obiettivi, nello studio, nel lavoro, nello sport, negli hobbies, e di darsi delle regole per perseguirli fino a realizzare i propri sogni. Addirittura, quando ascoltati, molti di questi ragazzi dicono di non avere alcun sogno sul futuro, che è visto come uno scenario scuro e senza luce. E rispondono alla loro depressione evidente con un’autoterapia paradossa, di gruppo (gli amici) e di sostanze psicoattive (che li illudono di sentirsi meglio, almeno nel breve termine).
Di converso, i ragazzi che non si fanno tentare dal virus dell’autodistruzione hanno le caratteristiche opposte: in famiglia si sentono amati, ascoltati, seguiti, rimproverati anche, quando serve. Le loro trasgressioni iniziali non passano inosservate: il genitore corre rapidamente ai ripari, si attiva, cerca di capire dove stia il punto di vulnerabilità, dove sia la richiesta di aiuto, e quando il polso forte sia necessario e vada usato con fermezza. E ha il coraggio per far capire che l’amore, anche genitoriale, ha bisogno non solo di tenerezza e sollecitudine ma anche di regole e divieti, come le strade hanno bisogno di semafori rossi e verdi, che vanno rispettati, per evitare il caos o il suicidio di gruppo, mimetizzato da strage del sabato sera.
E’ da evitare come la peste l’autorassicurante: “Tanto tutti lo fanno, passerà”. Non va banalizzato l’insuccesso scolastico né vanno demonizzati gli insegnanti per principio, come moltissimi genitori tendono oggi a fare. Ci può essere l’insegnante impreparato o che va in rotta di collisione caratteriale con il ragazzo (e viceversa): ma si tratta di una materia. Quando il rendimento scolastico è carente su tutti i fronti, è la famiglia che deve fare un serissimo esame di coscienza. Perché la scuola non è un parcheggio in attesa di rottamazione (anche se per molti lo sta diventando), ma una palestra dove allenarsi con gusto per la vita. E il comportamento a scuola, come a casa, la famosa “condotta” di una volta, dovrebbe tornare ad essere un indicatore prezioso di rischio adolescenziale. Chi sa rispettare le regole, e assumere comportamenti adeguati al contesto in cui si trova, sa anche governare istinti e impulsi. Può trasgredire, ma non è così alla deriva di se stesso da fare della trasgressione la regola e dell’autodistruzione il paradigma di un’esistenza che ha così paura del futuro da preferire la fuga nell’autoannientamento.
Sta a noi capire questa paura e aiutare i nostri ragazzi a comprenderla e superarla. Non con la rassicurazione continua e l’iperprotezione a oltranza: ma incoraggiandoli a crescere, a svolgere i loro compiti, ad assumersi gradualmente le loro responsabilità, ad affrontare le difficoltà piccole e grandi, della scuola e della vita, senza smussarle o rimuoverle al posto loro. Allenandoli fin da piccoli a superare gli ostacoli: con noi vicini e affettuosi, certo, ma con le loro gambe, il loro allenamento quotidiano, il loro coraggio.
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