«Nomina sunt consequentia rerum», i nomi sono la conseguenza delle cose, dicevano gli antichi. «Se mi sento stressata vuol dire che lo stress c’è», diranno molte Amiche lettrici (questo vale anche per gli uomini, ma le donne usano quest’espressione molto di più). Tuttavia è anche vero l’inverso: tra la verità delle cose e le parole che usiamo per definirla esiste una corrispondenza biunivoca ed è questo il focus della riflessione di oggi. Attraverso le espressioni che usiamo finiamo per definire in modo sempre più preciso, ma anche strutturato e profondo, sia la nostra vera identità, la rappresentazione interna dell’Io, sia la nostra visione del mondo esterno. Usiamo espressioni sempre centrate sullo stress, e questo cambia la nostra fisiologia, in nostro stesso funzionamento biochimico: in parallelo aumentano i nostri livelli di adrenalina, di tensione, di usura energetica, che poi tutto il corpo rivelerà. Usiamo espressioni volgari, come intercalare abituale, e la nostra identità diventa sempre più volgare. Ad essa aderiscono poi la mimica del volto, il tono di voce, la postura, i gesti, la piega della bocca, in una volgarità esponenziale e sempre più strutturata, finché diventa difficile pensarsi e agire in altro modo. Usiamo un linguaggio sciatto, e tutto il nostro corpo seguirà quella sciatteria che dall’interno del cervello e della mente pervade ogni tratto del corpo. Usiamo un linguaggio perdente: «Non mi considerano», «Mi bocceranno», «Mi elimineranno», e finiamo per condurre la nostra vita nel registro dell’emarginato perpetuo. E viceversa. Usiamo un linguaggio curato, educato, preciso, gentile, scelto nelle parole e nelle espressioni, e ad esso si adeguano il sorriso, il tono di voce, l’espressione del volto, la calma e la profondità, del pensiero e del respiro. In una sorta di danza interiore tra il pensiero, le parole che usiamo e i comportamenti che essi ispirano e modificano.
Che cosa mi ha stimolato questa riflessione? L’osservazione che le mie pazienti, quando stanno affrontando malattie aggressive e difficili, rarissimamente dicono «Sono stressata». Semmai, è più frequente il «Farò di tutto per farcela». Proprio nelle situazioni molto serie, di malattia e di dolore, ho visto il potere “trasformativo” positivo delle parole e delle espressioni che usiamo, come persone, e come medici curanti. Molte volte ho toccato con mano l’efficacia anche terapeutica dell’uso positivo delle parole. Di come con la modalità verbale “combattente”, la donna riesca a esprimere il meglio di sé, del suo coraggio, della sua forza, della sua disciplina interiore, proprio nelle situazioni più impegnative, angoscianti e obiettivamente pesanti, di diagnosi di tumore o di malattie autoimmuni, e delle relative terapie. E come la sua capacità di credere in una soluzione positiva, di farcela, e di scegliere le parole per dirlo, la sintonizzi con tutto il corpo e la mente sull’atteggiamento biologico ed emotivo più adeguato a superare anche ciò che sembrava insuperabile.
Questo mi ha insegnato molto, come donna e come medico. Di converso, è evidente come ci siano invece persone che si definiscono sempre in negativo, indipendentemente dall’obiettiva realtà della loro vita, fino a non riuscire più a vederne i lati luminosi. Ancor peggio, fino a definirsi solo attraverso una percezione negativa, che come un’ombra nera finisce per oscurare tutta la loro vita. E allora? Il nostro linguaggio è dinamico, mutevole, e può adattarsi rapidamente a livelli diversi di consapevolezza, di disciplina interiore, di dolcezza e di sguardo sulla vita. Ascoltiamoci, mentre parliamo. E chiediamoci: che cosa sto rivelando di me? Cambiare il mio linguaggio può farmi vivere meglio? Sì. La parola, e i pensieri che la ispirano, hanno un immenso potere. Sta a noi coltivarli, sceglierli, raffinarli, per una vita migliore. Una benedizione e un raggio di luce per noi e per chi ci circonda. Un regalo impareggiabile per i nostri figli, se li educhiamo ad usare le parole giuste per esprimersi e per vivere al meglio.
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