“Lascialo piangere! Tra un po’ smette!”. “Se ha mangiato, è stato cambiato, è pulito, non c’è motivo che pianga... lascialo piangere, altrimenti lo vizi...”. Il pianto dunque come vezzo, o come vizietto, da correggere lasciandolo inascoltato. “Lasciatelo piangere. Arriverà il momento in cui il bambino non piangerà più, perché ha imparato l’autonomia”, sostiene qualche esperto d’oltreoceano, autore di best-seller “educativi” che pacificano l’indifferenza dei genitori.
Attenzione: il bambino che smette di piangere, da solo nella sua cameretta, perché nessuno risponde al suo pianto, non è un bambino che ha imparato l’autonomia. E’ un bambino che sta imparando la disperazione: quella mancanza profonda di fiducia che ci sia qualcuno che ti ama, che ti conforta, che si prende cura di te. Uno sconforto che pian piano diventa perdita di speranza nei confronti della vita. Tanto più se il pianto nasce da un dolore fisico, oltre che emotivo, che l’adulto non ha riconosciuto né compreso.
Perché piange, un bambino? Perché si sente solo e trascurato, perché ha bisogno di attenzione, perché vuole essere coccolato, perché ha bisogno di una carezza e di un abbraccio, perché resta affidato ad estranei per troppe ore al giorno e gli mancano l’odore della pelle della mamma, la sua voce, il suo calore. Piange perché soffre, perché sente dolore. Soprattutto il bambino piccolo, che non comunica a parole, può affidare al pianto tutto il suo mondo emotivo per dare agli adulti che lo circondano dei segni di allarme e di attenzione. Negare il profondo significato comunicativo del pianto del bambino significa uccidere una parte fondante del suo mondo psichico (e fisico!) e della sua crescita affettiva. Il bambino non ascoltato nel suo pianto non ascolterà il pianto degli altri bambini, non sentirà le loro emozioni, non sarà educato all’empatia. Crescerà depresso, oppure aggressivo e bullo o, in casi estremi, sadico. Ed avrà più probabilità di cercare in droghe e alcol quella riduzione di ansia e inquietudine che non sa più cercare né ricevere attraverso rapporti affettivi di qualità.
Mettiamoci nei suoi panni: quando parliamo, desideriamo che l’altro ci ascolti. Ci ferisce profondamente e ci fa tacere addolorati, o urlare ancor più, rancorosi o furiosi, la sensazione di “parlare al muro”. Ecco: per il bambino piangere senza che nessuno risponda è come parlare al muro. Quando l’esperienza si ripete, il bambino impara la dura verità: nessuno ti risponderà. O, peggio, ti risponderà con urla, se non con percosse.
Viviamo in un mondo paradossale. Da un lato copriamo i bambini di regali inutili, di cose inessenziali, dall’altro diamo loro sempre meno l’unico nutrimento di cui un bambino ha davvero bisogno, oltre al cibo: un’attenzione tenera e affettuosa, un ascolto empatico che lo faccia sentire amato e non solo. Soprattutto, un ascolto che sia capace di capire e, se c’è un problema oltre al bisogno di coccole e conforto, anche di curare il suo dolore, emotivo o fisico che sia.
E qui c’è il dramma: nei confronti del dolore fisico del bambino esiste una sostanziale negligenza, non solo a casa, ma anche nei reparti pediatrici. Con poche, lodevoli eccezioni, gli stessi pediatri non ricevono una formazione specifica, come sostiene con conoscenza di causa la professoressa Franca Benini, del Dipartimento di Pediatria dell’Università di Padova (un’isola felice, da questo punto di vista): da trent’anni si occupa del dolore nel bambino e si sta battendo perché nelle scuole di pediatria la gestione del dolore dei piccoli diventi materia di studio prioritaria.
Come si fa a capire quanto un bambino sta male, anche dal punto di vista fisico? Ora è possibile “quantizzare” il suo dolore con un “righello” con le faccine, da quella che piange a quella che ride, conosciuto come scala dell’intensità del dolore di Wong-Baker. Essa permette una valutazione dell’intensità del dolore da 1 a 10, a seconda della faccina indicata dal bambino. Una scala semplicissima, il cui uso dovrebbe essere routinario da parte di ogni pediatra di famiglia e ospedaliero. E forse anche dei genitori.
Al di là e prima delle quantizzazioni, il messaggio cardinale è uno solo: ascoltiamo il pianto del bambino. Sintonizziamoci sul suo dolore. Confortiamolo. Se il dolore è fisico, curiamolo in modo adeguato, anche farmacologico, in ospedale e a casa, sempre su consiglio del medico.
Soprattutto, non dimentichiamo che il bambino, quando piange, ci sta parlando. Non ascoltarlo è crudeltà, che genera altro dolore, altra solitudine e infinita infelicità.
Attenzione: il bambino che smette di piangere, da solo nella sua cameretta, perché nessuno risponde al suo pianto, non è un bambino che ha imparato l’autonomia. E’ un bambino che sta imparando la disperazione: quella mancanza profonda di fiducia che ci sia qualcuno che ti ama, che ti conforta, che si prende cura di te. Uno sconforto che pian piano diventa perdita di speranza nei confronti della vita. Tanto più se il pianto nasce da un dolore fisico, oltre che emotivo, che l’adulto non ha riconosciuto né compreso.
Perché piange, un bambino? Perché si sente solo e trascurato, perché ha bisogno di attenzione, perché vuole essere coccolato, perché ha bisogno di una carezza e di un abbraccio, perché resta affidato ad estranei per troppe ore al giorno e gli mancano l’odore della pelle della mamma, la sua voce, il suo calore. Piange perché soffre, perché sente dolore. Soprattutto il bambino piccolo, che non comunica a parole, può affidare al pianto tutto il suo mondo emotivo per dare agli adulti che lo circondano dei segni di allarme e di attenzione. Negare il profondo significato comunicativo del pianto del bambino significa uccidere una parte fondante del suo mondo psichico (e fisico!) e della sua crescita affettiva. Il bambino non ascoltato nel suo pianto non ascolterà il pianto degli altri bambini, non sentirà le loro emozioni, non sarà educato all’empatia. Crescerà depresso, oppure aggressivo e bullo o, in casi estremi, sadico. Ed avrà più probabilità di cercare in droghe e alcol quella riduzione di ansia e inquietudine che non sa più cercare né ricevere attraverso rapporti affettivi di qualità.
Mettiamoci nei suoi panni: quando parliamo, desideriamo che l’altro ci ascolti. Ci ferisce profondamente e ci fa tacere addolorati, o urlare ancor più, rancorosi o furiosi, la sensazione di “parlare al muro”. Ecco: per il bambino piangere senza che nessuno risponda è come parlare al muro. Quando l’esperienza si ripete, il bambino impara la dura verità: nessuno ti risponderà. O, peggio, ti risponderà con urla, se non con percosse.
Viviamo in un mondo paradossale. Da un lato copriamo i bambini di regali inutili, di cose inessenziali, dall’altro diamo loro sempre meno l’unico nutrimento di cui un bambino ha davvero bisogno, oltre al cibo: un’attenzione tenera e affettuosa, un ascolto empatico che lo faccia sentire amato e non solo. Soprattutto, un ascolto che sia capace di capire e, se c’è un problema oltre al bisogno di coccole e conforto, anche di curare il suo dolore, emotivo o fisico che sia.
E qui c’è il dramma: nei confronti del dolore fisico del bambino esiste una sostanziale negligenza, non solo a casa, ma anche nei reparti pediatrici. Con poche, lodevoli eccezioni, gli stessi pediatri non ricevono una formazione specifica, come sostiene con conoscenza di causa la professoressa Franca Benini, del Dipartimento di Pediatria dell’Università di Padova (un’isola felice, da questo punto di vista): da trent’anni si occupa del dolore nel bambino e si sta battendo perché nelle scuole di pediatria la gestione del dolore dei piccoli diventi materia di studio prioritaria.
Come si fa a capire quanto un bambino sta male, anche dal punto di vista fisico? Ora è possibile “quantizzare” il suo dolore con un “righello” con le faccine, da quella che piange a quella che ride, conosciuto come scala dell’intensità del dolore di Wong-Baker. Essa permette una valutazione dell’intensità del dolore da 1 a 10, a seconda della faccina indicata dal bambino. Una scala semplicissima, il cui uso dovrebbe essere routinario da parte di ogni pediatra di famiglia e ospedaliero. E forse anche dei genitori.
Al di là e prima delle quantizzazioni, il messaggio cardinale è uno solo: ascoltiamo il pianto del bambino. Sintonizziamoci sul suo dolore. Confortiamolo. Se il dolore è fisico, curiamolo in modo adeguato, anche farmacologico, in ospedale e a casa, sempre su consiglio del medico.
Soprattutto, non dimentichiamo che il bambino, quando piange, ci sta parlando. Non ascoltarlo è crudeltà, che genera altro dolore, altra solitudine e infinita infelicità.
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