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Il senso della vita dipende da noi

21/03/2011

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

La giovane donna entra nello studio incerta. Mi scruta, quasi prima di sorridere gentile per ricambiare il saluto. Passa veloce uno sguardo intenso che va oltre gli occhi e sonda rapido l’anima. Va subito al punto: «Ho un brutto cancro al seno. Internet è pericolosa da questo punto di vista. I medici, sì, mi hanno detto che è una forma aggressiva e che ci vogliono molte cure. Ma guardando sul web ho capito che la questione è drammatica. Non credo che mi resti molto tempo davanti. Sul subito mi è preso il panico. Vivo sola, e per chi è solo essere ammalati è cento volte peggio. Tutto diventa più difficile, anche le cose più semplici: soprattutto se ti fanno una chemio d’assalto e la notte, a casa, non hai nemmeno chi ti porta un bicchier d’acqua. Ma non è questa la ragione per cui sono qui. Adesso sto molto male, perché ho appena finito un ciclo di cure. Mi è venuta una gran rabbia, sei mesi fa, quando l’ho scoperto. Perché proprio a me?, mi dicevo. Ma anche questo non è il punto. In una notte insonne, mi è venuto d’improvviso chiaro quello che volevo: io voglio vivere, mi sono detta, non vegetare. Non voglio più perdere energia con la rabbia e nemmeno con la depressione. Che sia poco o tanto, quello che ho davanti deve essere tempo da vivere. Perché di giorni grigi, nella vita ne ho già avuti troppi... Ecco, sono qui per questo. Perché lei mi aiuti a vivere, adesso».
Mentre la giovane donna parlava, l’intensità di quella voglia di vivere si dilatava. Non era euforia, né esaltazione. Era consapevolezza. Come se, in poche settimane solitarie, fosse riuscita a vedere con lucidità la propria vita e le sue incompiutezze, l’arrendersi a troppe aspettative fino a non sapere più chi fosse o cosa volesse, e la serie di giorni grigi in una rete di abitudini quiete che l’aveva però quasi asfissiata. Figlia unica di genitori anziani, li aveva assistiti a lungo nella malattia. «C’è voluto un cancro per darmi lo scossone. Forse è troppo tardi, non so. Ci provo. Ma mi preoccupa che ho poco tempo davanti».
Tutti, prima o dopo, abbiamo uno tsunami che ci attende. La differenza è che alcuni lo sanno, o l’hanno già subito, altri no. Può essere un incidente improvviso, una malattia grave. O una tragedia collettiva, un terremoto, un’inondazione, un raid aereo. Un gesto terroristico che può coglierci ovunque. Non abbiamo alcuna sicurezza del domani. Questa è la verità millenaria (dall’“Estote parati”, tenetevi pronti, del Vangelo, al “Del doman non v’è certezza” di Lorenzo il Magnifico, al più recente “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, di Ungaretti). Ciascuno cogliendo nella caducità della vita la sola precarietà, l’invito alla gioia, o l’imperativo di una più rigorosa assunzione di responsabilità del proprio destino. Che non esclude la gioia, anzi, ma la cerca con una consapevolezza che non è il passivo affogarsi in piaceri fugaci.
A volte, il rischio di un domani più breve è più evidente. Sabato mattina, quando si è avuta notizia dei raid francesi e dell’attacco alla Libia, i bambini di molte classi erano spaventati dall’idea di una guerra. Me l’hanno detto le maestre. I bambini colgono le ansie, le paure, le angosce e i rischi, ben oltre tante dichiarazioni di sicurezza falsamente rassicuranti. Quando s’inizia una guerra, più o meno santa, non si sa mai come andrà a finire. Di baldanze finite in catastrofe la storia ne ha viste fin troppe. E l’“Alba dell’Odissea”, come termine, non promette niente di buono...
Incuranti, ci comportiamo come se fossimo eterni, e non curiamo l’essenziale, che è essere compiutamente e con soddisfazione noi stessi. A volte ci amputiamo della vita per correre stressati da mattina a sera, dietro obiettivi inconsistenti. A volte, per troppo senso del dovere. O per un senso del divertimento a tutti i costi che copre vuoti ancora più inquietanti. E se il pensiero della brevità del tempo potrebbe indurci ad accelerare voracemente, quasi per mangiare d’un fiato la vita che sfugge, la risposta più saggia è rallentare: per pensare, per assaporare, per respirare a fondo, per guardare il cielo e accorgerci di tutta la bellezza e la gioia che c’è (ancora) in questo oltraggiato mondo. Rallentare per ascoltare, lasciando che le emozioni risuonino in noi. Rallentare per capire, e scegliere il meglio ponderatamente, invece che farci manipolare dal conformismo mediatico. Rallentare per amare, per ricompattare le nostre famiglie, il legame con i figli, i genitori, gli amici. Rallentare per accarezzare i nostri amici animali, che ci danno così tanto, e sanno essere devoti e misteriosi. Rallentare per essere (davvero) protagonisti della propria vita, e non automi in corsa perpetua, per il denaro, la carriera, la casa, il potere o il piacere insaziato. Rallentare per accorgersi di essere vivi, prima di morire vegetando.
Sì, è vero, si muore comunque, ma quando la vita ha avuto un suo disegno consapevole, la sua musica e il suo compimento, si può morire sereni, in pace, perché si è stati davvero vivi. E (quasi) tutto ha avuto senso.

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