Dentro di noi, dorme una nostalgia. Dorme nella parte più antica del nostro cervello, quella dove sono scritti i secoli di storia dei nostri antenati, di bisnonni e avi di cui, apparentemente, si è persa memoria. La memoria consapevole, forse. Non la memoria profonda, istintiva, scritta in quel codice misterioso, il DNA, che racchiude la nostra storia, oltre al nostro progetto. Hai mai ascoltato questa nostalgia, questo struggente dolore del ritorno? Che sa di radici, di ricomposizione, di pacificazione? Una nostalgia di appartenenza più forte in chi, per ragioni diverse, si sia sradicato dalla terra degli avi. Ritrovare il filo di questa nostalgia è un altro, straordinario, analgesico dell’anima. Attenzione: non è un percorso che richieda libri, o lauree, o corsi impegnativi. No. Segue tutta un’altra strada. Richiede innanzitutto sensi all’erta, gusto per la storia di famiglia, e tempo. Ecco perché l’estate è il suo momento perfetto, ma anche novembre va bene, se ci si regala una pausa. Qualche giorno di decompressione: in “pulchra solitudo”, in bella solitudine, come dicevano gli antichi, e in “pulchra quies”, in magnifica quiete. Per togliere dagli occhi il paesaggio urbano. Per togliere dal naso l’odore ottenebrante dei gas di scarico. Per liberare l’orecchio dall’assordante rumore di fondo che, all’inizio, rende disturbante perfino il silenzio. Dorme, questa nostalgia, dove si sono stratificati millenni di esperienze di vita quotidiana, di profumi e di odori. E’ dunque un viaggio nella memoria millenaria che i sensi hanno scritto dentro di noi. L’odore nell’aria del fuoco acceso e della legna che arde, che ti consola già da lontano perché profuma di casa, anche se non è la tua. Specialmente se è sera e l’aria rinfrescata dalla pioggia battente ti regala un brivido lungo la schiena. L’odore dell’erba appena tagliata, che trascolora sotto il sole. L’odore di resina. L’odore della terra dopo l’acquazzone. L’odore dell’uva pigiata nei tini. Il profumo delle cucine antiche, dove il cibo era buono e dal profumo la nonna sentiva se mancava il sale. Il gusto di un pane grezzo, cotto nel forno a legna: che già col profumo ti accende un’acquolina golosa, e al morderne un boccone ancora caldo ti dà un’ondata di felicità. L’odore dei libri antichi e delle belle biblioteche in legno, e la tenera, quieta pazienza del nonno che ti ha insegnato a leggere, ancora piccolina. E il profumo del bosco. Ogni profumo, ogni odore richiama alla mente un colore, un’immagine, un’emozione antica. I colori familiari, tutti i blu del mare e del cielo, per chi abbia antenati che hanno amato il mare. E faticato in mare. O gli ocra e i marroni della terra arata, della legna rugosa con cui accendere il fuoco, delle patate, delle cipolle e delle castagne con cui passare l’inverno. I gialli soavi dei campi di grano maturo, i gialli accesi dei campi di girasole, e i gialli scintillanti dei prati di ravizzone. Il giallo acquietato dell’uva appassita sui graticci, nei granai. E il giallo consolante che un quadro di luce accende alla finestra della casa solitaria, dove qualcuno attende, mentre si fa sera. I rossi trionfanti dei campi di papaveri, che trovi ancora ad aprile in Andalusìa, i rossi sapidi dei chicchi di melograno, che da millenni ci augurano fertilità, e l’arancio allegro dei cachi che sorridono sotto la neve, nel vecchio giardino della casa abbandonata. I colori lievi dell’alba dalle dita rosate. Il bianco sognante dei ciliegi in fiore, che per tradizione il padre piantava, quando nasceva un figlio. E i verdi, tutti i verdi del bosco. Il verde calma, dice la saggezza popolare. Calma di nuovo per ragioni antiche, di cui abbiamo nostalgia. Calma perché è il colore della terra fertile, ricca di acque, che può aiutarci a (ri)vivere. Perché è il colore dei boschi che profumano ancora di vita selvatica. Dei boschi d’Alvernia, dalle grandi querce. Dei boschi di castagni del Trentino o del Bellunese. Dei boschi di sughero del nuorese, coi tratturi che a primavera si snodano tra ciclamini in fiore. Dei boschi punteggiati di prati e di armenti del Molise. Calma, il verde, perché è il colore del prato su cui ci si può stendere a guardare il gioco delle nuvole nel cielo. Calma perché in siti verdi ritrovi piccole pievi e antiche abbazie. Calma perché ci culla il profumo del trifoglio, e delle cento erbe fitte, sotto il pioppo che trema leggero e ride al vento. Calma per il profumo del tiglio in fiore, che dal maggio italiano ti accompagna fino ad agosto, se risali in Turingia fino a Berlino. Il verde calma, perché ha una sua musica antica. Una musica di vento e di acque che gorgogliano, in fossi e torrenti. Di mulini che macinano il grano sulle grandi mole. Di anatre lente sull’acqua. Una musica quieta di campanacci di mandrie al pascolo, o del galoppo felice di un cavallo ardente che corre e sgroppa da solo. E ti ricorda altri cavalli, altri galoppi, e la felicità di lanciarsi a briglia sciolta, ridendo. Una musica di cinguettii sommessi, e cicale allegre sotto il sole. Attraverso la bellezza primaria e semplice del mondo che i sensi, riaccesi, ci donano, si apre lo scrigno dei ricordi profondi degli antenati. Chi eravamo. Come eravamo.
E’ un cammino della memoria, del corpo e del cuore. E’ un lavoro fine di archeologia, nei sotterranei dell’anima ma anche della memoria storica della famiglia. Con l’aiuto di vecchie fotografie, di qualche lettera, di un ritorno a case antiche in cui magari non si abita più. Ancora più appassionante se le famiglie di origine vengono da luoghi e storie e vite diverse. Perché è curioso, e sorprendente, ricercare dentro se stessi le tracce misteriose che il gioco degli amori e dei destini ha intrecciato dentro di noi. Qual è il “nostro” sentiero della nostalgia? Quello che ci dà pace. Che ci soddisfa profondamente, misteriosamente. Che ci fa sentire finalmente a casa. Di nuovo radicati. Allora diventa un pausa di pacificazione profonda, una saggia liturgia, ripartire, di tanto in tanto, per questo viaggio di memorie e di emozioni, risalendo l’uno o l’altro ramo degli antenati. Allora, e solo a quel punto, sarà esaltante condividerle. Con un figlio, specie se piccolo, perché gli si dà una chiave di conoscenza di sé e di felicità che non smarrirà più. Con un amico. O con un amore.
Ma attenzione. Perché questa nostalgia di appartenenza, se inascoltata, se negletta e zittita, come oggi si fa, divora invece energie profonde e dà un’inquieta e irritata e distruttiva malinconia. Se inascoltata a lungo, può seccare il cuore, come succede a un albero sradicato, con le radici al sole.
E’ un cammino della memoria, del corpo e del cuore. E’ un lavoro fine di archeologia, nei sotterranei dell’anima ma anche della memoria storica della famiglia. Con l’aiuto di vecchie fotografie, di qualche lettera, di un ritorno a case antiche in cui magari non si abita più. Ancora più appassionante se le famiglie di origine vengono da luoghi e storie e vite diverse. Perché è curioso, e sorprendente, ricercare dentro se stessi le tracce misteriose che il gioco degli amori e dei destini ha intrecciato dentro di noi. Qual è il “nostro” sentiero della nostalgia? Quello che ci dà pace. Che ci soddisfa profondamente, misteriosamente. Che ci fa sentire finalmente a casa. Di nuovo radicati. Allora diventa un pausa di pacificazione profonda, una saggia liturgia, ripartire, di tanto in tanto, per questo viaggio di memorie e di emozioni, risalendo l’uno o l’altro ramo degli antenati. Allora, e solo a quel punto, sarà esaltante condividerle. Con un figlio, specie se piccolo, perché gli si dà una chiave di conoscenza di sé e di felicità che non smarrirà più. Con un amico. O con un amore.
Ma attenzione. Perché questa nostalgia di appartenenza, se inascoltata, se negletta e zittita, come oggi si fa, divora invece energie profonde e dà un’inquieta e irritata e distruttiva malinconia. Se inascoltata a lungo, può seccare il cuore, come succede a un albero sradicato, con le radici al sole.