La vita è un soffio. Un palpito. Un sospiro. La vita è un affacciarsi alla finestra. Oppure, la vita non passa mai. E’ straordinario quanto sia mutevole la percezione soggettiva del tempo. Non tanto perché da bimbi e adolescenti i giorni sembrino di lunghezza infinita, e, di converso, di brevità sincopata, quanto più gli anni avanzano. Soprattutto, perché è squisitamente individuale il modo con cui ciascuno si rapporta al tempo della propria vita.
Chi esiste e si realizza nel fare, ha con il tempo un rapporto produttivo, scandito dalle diverse attività, professionali e di svago, con cui punteggia la giornata. Si tratta in genere di persone solide, sane psicologicamente, forse con un tratto ossessivo che le induce a curare nei dettagli quello che fanno, e che diventano presto o tardi dei realizzatori, di sé e del proprio progetto di vita. Il tempo per loro non basta mai. Ne hanno una percezione ritmica, pulsante, come quella di un cuore che batte forte, appassionato della vita e della sua musica. Non importa quale sia lo specifico campo di espressione. Quello che hanno in comune, gli amanti del fare, è la felicità di sentirsi vivi quando realizzano, pragmaticamente, i loro sogni. Sono capaci di sacrifici notevoli, possono concentrare tutte le loro energie, per anni, su quello specifico progetto, e sentirsi ugualmente soddisfatti, anche se molti altri piaceri della vita restano ai margini del loro esistere. Tuttavia, sanno gustare e assaporare il tempo, ancora più a fondo, quasi fosse un tempo rubato, quando si concedono di evadere dal fare lavorativo per consentirsi di ascoltare un’altra passione, sia essa uno sport o un hobby che li porti a contatto con la terra. Dalla cura del giardino o dell’orto, allo scalare una montagna. Che è uno sport, certo, ma è anche un momento di intimità profonda tra il proprio corpo e la forza granitica del monte. In un dialogo silenzioso che ha nell’ascesa verso la cima non solo una sfida con se stessi ma anche una grande metafora della propria esistenza. Alla fine della vita, guardando indietro, molti di loro hanno uno sguardo soddisfatto: perché è stata un’esistenza intensa, con qualche rovescio, sì, ma anche tanti slanci del cuore. Ci può essere un filo di malinconia, perché tutto, alla fine, è stato così breve, anche nella sua intensità. Il premio di una vita in cui il tempo è stato vissuto a misura dei propri desideri e dei propri progetti è una sostanziale pacificazione: quel senso di benessere interiore che cresce quando sentiamo che il cerchio del nostro esistere si è compiuto. I latini sintetizzavano questo percorso di vita con un “per aspera ad astra”: superando le prove difficili si arriva alle stelle. Che non coincidono necessariamente, attenzione, con il successo esteriore, bensì con la sensazione interiore di appagamento perché la verità della persona si è espressa al meglio. Per questa ragione profonda, il premio di un tempo ben vissuto è trasversale: gratifica la donna felice di essere diventata madre e nonna, che sa essere un punto di riferimento con la sua saggezza, che la domenica si diverte ancora a cucinare per tutti, per il gusto di “far famiglia” con figli e nipoti. Gratifica il contadino che ha amato la sua terra, il suo lavoro, i suoi animali e il passare delle stagioni. Gratifica l’artigiano o il musicista. Il cuoco e l’insegnante.
Chi esiste nel contemplare ha, all’opposto, un rapporto con il tempo più interiore. Si consente di più il piacere di sognare, ma anche di interrogarsi a fondo sulle cose e le persone. Sa osservare, sa pensare. Coltiva il lato spirituale della vita. Spesso ama leggere e ascoltare buona musica. O contemplare la bellezza di un bosco, di un prato, o del mare, ma anche di un quadro o di un vecchio borgo, con quel moto di gioia che premia chi sa sintonizzarsi a fondo con la vibrazione del mondo. Questo modo di esistere è più silenzioso, meno “visibile”, ma non meno prezioso. I contemplativi che abbiano appagato il loro profondo bisogno di bellezza e di armonia possono raggiungere una quieta e intensa soddisfazione di sé, alla fine della vita. Complementari agli attivi, sono del pari preziosi a mantenere alto il senso dell’uomo in questa umanità alla deriva.
Purtroppo, sia l’educazione al fare, con fatica e disciplina, superando le prove che il cammino (e la vita) ci pone, sia l’educazione al contemplare, che è un’arte raffinata, stanno scomparendo dal lessico delle generazioni più giovani. Che abbandonano ogni attività, anche sportiva, che comporti “fatica”, preferendo un esistere sempre meno attivo, sempre più passivo e perfino accidioso. Che si aspettano che la “fortuna” li premi e consenta loro un’esistenza facile e di “successo”, senza troppo impegno. E che, tuttavia, non sono aiutati nemmeno a sviluppare i loro talenti contemplativi o spirituali. Il diffuso senso di noia che molti giovani avvertono finisce per trovare una risposta illusoria nei paradisi artificiali di alcool e droghe, o di sesso promiscuo, per il gusto di un’eccitazione occasionale.
C’è un antidoto a questa perdita di sé che consegna un numero crescente di giovani alla solitudine di chi sente che sta sprecando la vita e il suo tempo prezioso?
Sì, e sta ancora una volta nella famiglia, che resta la terra sana in cui ogni bambino e ogni adolescente affonda le proprie radici emotive e affettive. I genitori attenti, insieme o separati, dovrebbero cercare di capire – e sentire, con le antenne del cuore – se il proprio bambino esista nel fare o nel contemplare (con tutta la gamma intermedia, naturalmente). E stimolarlo a continuare nel proprio cammino di realizzazione, incoraggiandolo anche nei momenti difficili in cui sarebbe tentato di lasciar perdere tutto. L’iperprotezione, o il “fai quel che vuoi”, possono essere “comodi” nel breve termine, ma amputano i figli di quella soddisfazione che viene dal conquistare quello che si desidera con le proprie forze, o dallo sviluppare talenti che ci mettano in armonia con la bellezza del mondo. In entrambi i casi, il cammino per la realizzazione compiuta di sé richiede anche fatica e disciplina. Pensare che i propri figli possano farne a meno – ed essere ugualmente soddisfatti di sé e felici – è un’illusione pericolosa, che li consegna a giorni vuoti e senza gusto, con il tempo lungo. E sprecato.
Chi esiste e si realizza nel fare, ha con il tempo un rapporto produttivo, scandito dalle diverse attività, professionali e di svago, con cui punteggia la giornata. Si tratta in genere di persone solide, sane psicologicamente, forse con un tratto ossessivo che le induce a curare nei dettagli quello che fanno, e che diventano presto o tardi dei realizzatori, di sé e del proprio progetto di vita. Il tempo per loro non basta mai. Ne hanno una percezione ritmica, pulsante, come quella di un cuore che batte forte, appassionato della vita e della sua musica. Non importa quale sia lo specifico campo di espressione. Quello che hanno in comune, gli amanti del fare, è la felicità di sentirsi vivi quando realizzano, pragmaticamente, i loro sogni. Sono capaci di sacrifici notevoli, possono concentrare tutte le loro energie, per anni, su quello specifico progetto, e sentirsi ugualmente soddisfatti, anche se molti altri piaceri della vita restano ai margini del loro esistere. Tuttavia, sanno gustare e assaporare il tempo, ancora più a fondo, quasi fosse un tempo rubato, quando si concedono di evadere dal fare lavorativo per consentirsi di ascoltare un’altra passione, sia essa uno sport o un hobby che li porti a contatto con la terra. Dalla cura del giardino o dell’orto, allo scalare una montagna. Che è uno sport, certo, ma è anche un momento di intimità profonda tra il proprio corpo e la forza granitica del monte. In un dialogo silenzioso che ha nell’ascesa verso la cima non solo una sfida con se stessi ma anche una grande metafora della propria esistenza. Alla fine della vita, guardando indietro, molti di loro hanno uno sguardo soddisfatto: perché è stata un’esistenza intensa, con qualche rovescio, sì, ma anche tanti slanci del cuore. Ci può essere un filo di malinconia, perché tutto, alla fine, è stato così breve, anche nella sua intensità. Il premio di una vita in cui il tempo è stato vissuto a misura dei propri desideri e dei propri progetti è una sostanziale pacificazione: quel senso di benessere interiore che cresce quando sentiamo che il cerchio del nostro esistere si è compiuto. I latini sintetizzavano questo percorso di vita con un “per aspera ad astra”: superando le prove difficili si arriva alle stelle. Che non coincidono necessariamente, attenzione, con il successo esteriore, bensì con la sensazione interiore di appagamento perché la verità della persona si è espressa al meglio. Per questa ragione profonda, il premio di un tempo ben vissuto è trasversale: gratifica la donna felice di essere diventata madre e nonna, che sa essere un punto di riferimento con la sua saggezza, che la domenica si diverte ancora a cucinare per tutti, per il gusto di “far famiglia” con figli e nipoti. Gratifica il contadino che ha amato la sua terra, il suo lavoro, i suoi animali e il passare delle stagioni. Gratifica l’artigiano o il musicista. Il cuoco e l’insegnante.
Chi esiste nel contemplare ha, all’opposto, un rapporto con il tempo più interiore. Si consente di più il piacere di sognare, ma anche di interrogarsi a fondo sulle cose e le persone. Sa osservare, sa pensare. Coltiva il lato spirituale della vita. Spesso ama leggere e ascoltare buona musica. O contemplare la bellezza di un bosco, di un prato, o del mare, ma anche di un quadro o di un vecchio borgo, con quel moto di gioia che premia chi sa sintonizzarsi a fondo con la vibrazione del mondo. Questo modo di esistere è più silenzioso, meno “visibile”, ma non meno prezioso. I contemplativi che abbiano appagato il loro profondo bisogno di bellezza e di armonia possono raggiungere una quieta e intensa soddisfazione di sé, alla fine della vita. Complementari agli attivi, sono del pari preziosi a mantenere alto il senso dell’uomo in questa umanità alla deriva.
Purtroppo, sia l’educazione al fare, con fatica e disciplina, superando le prove che il cammino (e la vita) ci pone, sia l’educazione al contemplare, che è un’arte raffinata, stanno scomparendo dal lessico delle generazioni più giovani. Che abbandonano ogni attività, anche sportiva, che comporti “fatica”, preferendo un esistere sempre meno attivo, sempre più passivo e perfino accidioso. Che si aspettano che la “fortuna” li premi e consenta loro un’esistenza facile e di “successo”, senza troppo impegno. E che, tuttavia, non sono aiutati nemmeno a sviluppare i loro talenti contemplativi o spirituali. Il diffuso senso di noia che molti giovani avvertono finisce per trovare una risposta illusoria nei paradisi artificiali di alcool e droghe, o di sesso promiscuo, per il gusto di un’eccitazione occasionale.
C’è un antidoto a questa perdita di sé che consegna un numero crescente di giovani alla solitudine di chi sente che sta sprecando la vita e il suo tempo prezioso?
Sì, e sta ancora una volta nella famiglia, che resta la terra sana in cui ogni bambino e ogni adolescente affonda le proprie radici emotive e affettive. I genitori attenti, insieme o separati, dovrebbero cercare di capire – e sentire, con le antenne del cuore – se il proprio bambino esista nel fare o nel contemplare (con tutta la gamma intermedia, naturalmente). E stimolarlo a continuare nel proprio cammino di realizzazione, incoraggiandolo anche nei momenti difficili in cui sarebbe tentato di lasciar perdere tutto. L’iperprotezione, o il “fai quel che vuoi”, possono essere “comodi” nel breve termine, ma amputano i figli di quella soddisfazione che viene dal conquistare quello che si desidera con le proprie forze, o dallo sviluppare talenti che ci mettano in armonia con la bellezza del mondo. In entrambi i casi, il cammino per la realizzazione compiuta di sé richiede anche fatica e disciplina. Pensare che i propri figli possano farne a meno – ed essere ugualmente soddisfatti di sé e felici – è un’illusione pericolosa, che li consegna a giorni vuoti e senza gusto, con il tempo lungo. E sprecato.