Sono ancor oggi valide, queste qualità? E sono ancora presenti nella nostra comunicazione? Purtroppo, lo sono sempre meno. Eppure la loro riscoperta, e la loro valorizzazione nelle nostre conversazioni affettive, in primis, e poi professionali, potrebbe aggiungere molto alla qualità della nostra vita. E aiutarci anche a scegliere meglio, con più lucidità e soddisfazione, le persone con cui stabilire rapporti duraturi, di amicizia e di amore e, quando si possa scegliere, anche professionali.
Innanzitutto, la verità: che è essenziale in un rapporto che si basi sulla fiducia reciproca, sulla trasparenza, sull’affidabilità. Quante delle parole che ci vengono dette, e che diciamo, sono vere? Pensiamo alla pubblicità, oggi per eccellenza l’arte della comunicazione manipolante, al punto che il problema della pubblicità ingannevole sta diventando un’emergenza internazionale. La sua essenza sta nel cogliere un bisogno (di felicità, di appagamento, di emozioni, di sogno) e rispondervi costruendo associazioni, soprattutto visive e uditive, che creino una sorta di circuito decisionale obbligato in favore di quel prodotto. Non bastasse, proliferano i corsi di “persuasione”: che cos’altro è se non l’arte della manipolazione? Della politica, è meglio non parlare: il tasso di delusione e di allontanamento degli italiani dalla politica dice sinteticamente quanto la sistematica manipolazione della verità abbia ferito a fondo il bisogno essenziale di un rapporto fiduciario e trasparente tra gli elettori e i loro rappresentanti. Anche per i media (giornali, radio, TV e Internet) le cose non vanno molto meglio. La verità ha sempre una prospettiva di lettura parziale, nel migliore dei casi. Accettabile se dichiarata: per esempio, perché coerente con la linea politica del giornale. Consultando sullo stesso tema due o tre testate di diversa vocazione si può arrivare a una percezione abbastanza congrua del problema o dell’evento. Metodo costoso, in termini di tempo e di energia, ma necessario, per lo meno sui grandi eventi. In alternativa, ci si può limitare a quelle firme che nel tempo hanno conquistato la nostra fiducia, per verità di contenuti e sobrietà di toni. Molto spesso, tuttavia, anche i media sono tout-court servi del potere.
E a livello personale? La verità fa male, si dice. Ed è questo l’alibi che porta alle mezze verità, o alle franche menzogne, nell’amicizia come nell’amore. Eppure i Sufi, nella loro saggezza, con la seconda caratteristica della comunicazione ci danno, mi sembra, una chiave per accedere a un dire che possa mantenere integra la sua forza di verità, senza essere distruttivo: “Sono necessarie, queste parole?”. Necessarie a che cosa, e perché? La necessità o meno dipende dall’obiettivo della comunicazione: che può essere l’espressione di un sentimento. Tutto bene se positivo, molto più difficile se il sentimento e l’emozione sono negativi, come la collera, la rabbia, l’aggressività, il rancore, la delusione, la sfiducia. Nell’esprimere questa negatività, che pure è vera, ci sono due sbocchi principali: l’uno è l’esplosione veemente, di scarico della tensione interna, che in genere colpisce l’altro come un proiettile, sotterrandolo di veleni e insulti, e provocando un contropicco di negatività e aggressività. Si tratta allora di una comunicazione senz’altro vera, ma distruttiva per sé, per l’altro e per la relazione. L’altro sbocco, quello costruttivo, è l’espressione della negatività in modo evolutivo: nel senso di esprimere quello che non va, anche il proprio dolore, la collera o la delusione, per superare una difficoltà, per far capire all’altro che cosa ci fa soffrire, nel suo comportamento o nelle sue scelte, per suggerire un’opportunità di autocritica reciproca e condivisa, per migliorare insieme e nella relazione. Atteggiamento del pari valido quando la valutazione sulla necessità o meno del dire riguardi progetti e obiettivi comuni.
La gentilezza nella scelta delle parole, nel tono di voce, nell’atteggiamento non verbale (dall’espressione del volto alla postura), nell’evitamento di insulti ed espressioni sterilmente aggressive, crea l’atmosfera emotiva che rende massima la possibilità di essere ascoltati. Certo, da interlocutori civili. La deriva e il degrado comunicativo, soprattutto a livello televisivo, hanno invece premiato l’urlo, la violenza verbale e perfino fisica (in cui anche donne in ruoli politici apicali si sono espresse, in tempi recenti, a livello inqualificabile) come se educazione, gentilezza, garbo e rispetto per le opinioni dell’altro siano perdenti o comunque qualità sorpassate da museo dello stile. Attenzione: gentilezza non significa debolezza, o mancanza di carattere o di contenuti: semmai, può consentirsi di essere gentile chi abbia forza interiore, autostima, sicurezza e autocontrollo tali da poter restare calmo/a anche quando l’altro degenera nei toni e nei modi.
Questione di carattere? Anche: il collerico fa certo molta più fatica a controllarsi di un flemmatico. Tuttavia, la capacità di esprimersi con attenzione alla verità, alla necessità e alla gentilezza del proprio dire sono anche frutto di educazione, di disciplina, di automonitoraggio, di gusto di modulare parole e toni per renderli efficaci e penetrativi, pur mantenendo un’atmosfera emotiva di gradevolezza e di lievità. Ne vale la pena? Sicuramente sì: la vita personale, affettiva e professionale è infinitamente più piacevole, emotivamente ricca, gratificante e longeva quando si coltivino queste attenzioni. Pensiamoci: ognuno di noi ha tra i familiari, gli amici e i colleghi più cari, persone che sanno essere affidabili nella verità, attente alla necessità del loro dire, e squisitamente gentili. Sono queste le persone che portano bellezza, emozioni luminose e opportunità di crescita e di ampliamento di orizzonti nella nostra vita. Sappiamo fare altrettanto?
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