Un utero, normalmente, ospita una generazione, e ne vede due. Che ne ospiti due e ne veda tre, fino a ieri era fantascienza. Questa è la storia avventurosa dell’utero che per primo ha legato tre generazioni. Tutto cominciò trent’anni fa: «Complimenti signora, è una bambina, bellissima e sana». Felice la mamma, alla terza figlia sana e bionda, come tutte le svedesi. Felice la bimba che cresce bene, sveglia, bella e simpatica. Arrivano i 12 anni, arrivano i 13, cresce il seno, la bimba è alta e si allunga, come uno stelo gentile. Diversamente dalle sorelle, però, di mestruazioni neanche l’ombra. Alla prima visita ginecologica, lo shock: la bimba non ha la vagina né l’utero, per una rara malformazione, nota come sindrome di Mayer-Rokitansky-Kuster-Hauser. Ha però le ovaie funzionanti con i loro ormoni. Ecco perché tutti gli altri segni di sviluppo puberale sono presenti. Tragedia in famiglia: per la ragazzina, ma anche per la mamma, che si sente responsabile del disastro, per quell’antico e oscuro senso di colpa che hanno le mamme se un problema, specie se congenito, colpisce i loro figli. Le conseguenze di quel mancato sviluppo sono pesanti: la ragazzina non può avere rapporti e non può avere figli. Da parte della famiglia, e della mamma soprattutto, comincia la ricerca delle soluzioni. A 16 anni alla ragazzina viene creata una neovagina, che funziona bene. Passano gli anni. La ragazzina s’innamora e si sposa. E i figli? La mamma continua le sue ricerche. La folgorazione: ecco il medico che può realizzare il sogno di sua figlia di diventare mamma nonostante la “sterilità da causa uterina assoluta”. Mats Brännström è un pioniere della chirurgia dei trapianti in ginecologia (Fertility & Sterility, agosto 2016, vol. 106, 2, pag. 261-266). Svedese, lavora a Göteborg. Ha un’équipe fantastica, degna del maestro, per competenza chirurgica e tocco umano. Dal 2002 ha iniziato i primi trapianti di utero con gravidanze a termine negli animali: topini, pecore, maiali, scimmie. Il trapianto d’utero può essere effettuato da donatrice deceduta (con morte cerebrale ma cuore pulsante) oppure da donatrice vivente. Con più probabilità di successo se quell’utero ha dimostrato, nella donatrice, di essere “competente”: perché la signora ha avuto gravidanze a termine con bimbi vivi, senza aborti o complicanze come l’ipertensione, il diabete gestazionale o l’eclampsia. «Magari potessi regalare il mio utero a mia figlia!», pensa la mamma. Viene consultato il dottor Brännström. «Certo, è possibile – dice lui – Anzi, la mamma donatrice è una fortuna perché metà del patrimonio genetico della figlia è uguale alla mamma. Ancor più, se la mamma ha avuto figli suoi con parti vaginali normali». «Tuttavia – prosegue il medico – vi informo che la tecnica è pionieristica. Il prelievo dell’utero richiede un intervento molto lungo: circa dieci ore per togliere l’utero e cinque ore per re-impiantarlo. Bisogna aspettare qualche mese, per vedere se le mestruazioni ritornano e se non compare il rigetto. Per ridurre questo rischio è necessaria una cura “immunosoppressiva” per calmare il sistema immunitario, sia ora, sia durante la gravidanza. Infine, anche i dati sull’impatto sul bambino sono preliminari». La mamma non ha dubbi: «Anche se l’intervento durasse una settimana, dottore, non avrei dubbi. Qualsiasi cosa, purché mia figlia possa realizzare il suo sogno di un bimbo suo!». L’intervento di asportazione dell’utero alla mamma dura dieci ore e 17 minuti, il trapianto alla figlia 4 ore e 44 minuti. L’utero protagonista del trapianto è perplesso, ma si comporta bene: la prima mestruazione spontanea, in risposta agli ormoni normalmente prodotti dall’ovaio della ragazza, compare dopo 33 giorni. Piangono insieme mamma e figlia, per la commozione e il sollievo. Un anno dopo, viene effettuato il trapianto di un’unica blastocisti (embrione iniziale): l’utero ha qualche sussulto di rigetto, ma risponde bene ai farmaci immunosoppressori. Soprattutto, all’idea di essere il protagonista di una rivoluzione: ha fatto crescere la bimba che ora lo ospita e ora fa crescere suo figlio. Alla 34a settimana viene fatto il taglio cesareo: nasce un bimbo sano, nella commozione generale. Dopo qualche mese, la giovane donna decide: è felice, ma non se la sente di continuare le cure immunosoppressive per avere un secondo figlio. «Questo è già un miracolo», dice. Un altro intervento e l’utero viene rimosso per sempre: «Ciao ragazze – pensa l’utero – Mi dispiace andarmene così, ma abbiamo fatto un capolavoro d’amore. Tre generazioni felici. Chi l’avrebbe detto?! Ciao nonna, mi mancherai! Ciao piccolino, ho ospitato proprio bene te e tua mamma. E tu, dottor Brännström, sei un genio buono. Addio, addio!».
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