“La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno un doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. Così sostiene Susan Sontag, in un classico della letteratura contemporanea: “Malattia come metafora” (Einaudi, 1979). Nei giorni santi (“holy-days”) della vacanza, come suggerisce l’etimo inglese, la malattia è l’ultimo dei nostri pensieri, il più remoto e, quando la si incontri, il più disturbante. Eppure la malattia continua ad esistere, anche d’estate, anche in tempo di vacanza. Gli ospedali si limitano alle urgenze e ai casi gravi, eppure restano pieni. Per alcuni, è l’estate il tempo in cui si scopre di essere malati. Per altri è un incidente stradale o sportivo a riportare l’attenzione su quello spazio del dolore che il bisogno di svago, di riposo, di divertimento, porta ad evitare. Per altri ancora, è la malattia di una persona cara a riportare l’attenzione sul lato notturno della vita, e ad imporci una pausa diversa e inattesa. Per questo mi fa piacere dedicare questo piccolo spazio di riflessione alle persone che, in questo periodo, vivono nel dolore, o assistono chi è stato travolto dalla malattia.
Nell’immediato la risposta alla malattia, propria o di una persona amata, soprattutto alla vigilia della vacanza, è di shock, di rabbia o di collera: “Perché proprio adesso?”, “Perché proprio a me?” sono le prime umanissime risposte emotive. A seconda della gravità, e del tempo “sospeso” dalla vita abituale che la malattia comporta, la risposta emotiva può poi evocare risposte diverse, ancora più variegate a seconda della personalità e del livello spirituale di ciascuno.
Per chi vive la vita giorno per giorno, cercando di campare al meglio ma senza fede o slanci spirituali particolari, la malattia è solo una pesante palla al piede, proprio, altrui o delle diverse persone coinvolte. Una seccatura, o addirittura una violenza a tutto il progetto di relax e di vacanza che si era costruito. Per altri, è un modo inatteso e certo non desiderato di riconoscere che tutti i nostri programmi possono saltare in un minuto. Che la nostra illusione di controllo in realtà si scontra con limiti imprevedibili che ci obbligano a riconoscere le priorità ultime della nostra vita. Se fino a ieri l’obiettivo era divertirsi pazzamente, con una vacanza indimenticabile, in una notte l’obiettivo può diventare sopravvivere, o guarire con il minimo dei danni. Spaventa l’idea non solo di non gustarsi fino a fondo il meritato riposo, ma di arrivare all’autunno con un carico di dolore e sofferenza in più. C’è una via d’uscita? Rabbia e collera divorano solo energia vitale e possono diventare gravemente autodistruttivi. Per chi si ammala, è di grande conforto sentire l’affetto e l’amore non sospiroso di chi resta per assistere, per aiutare, per limitare la sofferenza. Per confortare, è essenziale il contatto fisico: una carezza, un massaggio gentile con la crema idratante alle mani, ai polsi, ai piedi, alle tempie. A volte il malato è stanco, sfibrato dal dolore; oppure è sfiduciato. Soprattutto, ha paura. Spesso tace, perché non ha più forze. Oppure perché lo disturbano le frasi false, le rassicurazioni inutili (“ti vedo bene”), i silenzi imbarazzati. Con una carezza affettuosa, con un massaggio delicato è possibile rompere il muro della solitudine e dello sconforto. Il corpo martoriato dalla malattia, perforato di flebo e tubi, avvilito, umiliato, ritrova dignità nella carezza che dice più di tante parole: “Sono qui con te, non avere paura, non sei più solo”. Perché una carezza sulla pelle è una carezza per l’anima.
La malattia ci obbliga a ripensare la nostra vita e il senso che essa può avere nonostante il dolore o oltre il dolore. Per chi assiste, e si trova con la doppia ferita di toccare con mano la malattia di una persona cara e il dolore dell’impossibilità, può essere saggio riconsiderare la pausa di assistenza estiva come un momento necessario per ripensare le proprie priorità. Accettando il rallentamento dei ritmi, la temporanea riduzione degli orizzonti di svago, cercando al contempo di mantenere da un lato degli spazi di riflessione, dall’altro comunque degli spazi di gioia e di ricarica fisica ed emotiva.
Per la riflessione, oltre al classico di Susan Sontag, possono essere preziosi dei piccoli libri spirituali come l’intenso e coraggioso “Ha senso la sofferenza?”, di Xavier Thévenot (Edizioni Qiqajon, 2009). Dice Thévenot, teologo salesiano: “Solo quello che costruisce e libera l’essere umano redime. Ora, la sofferenza in sé non lo fa, di conseguenza non può redimere. Lo fa, invece, il modo in cui ciascuno cerca di umanizzare la propria vita, dentro le sue sofferenze”. Anche d’estate, anche in vacanza o alla soglia della vacanza. Per chi assiste, e con dolore passa magari gran parte del giorno in ospedale, è indispensabile tenersi ogni giorno uno spazio per sé. Uno spazio di ricarica, anche piccolo, fosse solo una passeggiata, una nuotata, un giro in bicicletta. L’importante è che sia fisico, corporeo. Perché è indispensabile esprimere col movimento le emozioni nere che la malattia ci porta addosso, anche (e a volte soprattutto) quando tocca una persona amata. Ed è necessario ridare ascolto anche alle emozioni e sensazioni che il nostro corpo accumula quando assiste, alle tensioni muscolari, al senso di fatica e di perdita di energia, al senso di impotenza e di assurdo, alla malinconia e al dolore dell’assenza. Dando ascolto e spazio d’espressione alle emozioni che la malattia e l’assistenza ci evocano, è possibile dare comunque una direzione positiva anche alla pesantezza di un’estate di assistenza. Arrivando all’autunno con una comprensione più profonda di sé e della vita, una diversa disponibilità, e uno sguardo nuovo. Per ritornare poi ad immergersi nel fluire dei giorni con rinnovata passione e, insieme, con distaccata consapevolezza. Perché la malattia, figlia della sostanziale imprevedibilità dell’esistenza, ci insegna a vivere con passo leggero, avendo cura dei nostri affetti e del senso ultimo della vita.
Nell’immediato la risposta alla malattia, propria o di una persona amata, soprattutto alla vigilia della vacanza, è di shock, di rabbia o di collera: “Perché proprio adesso?”, “Perché proprio a me?” sono le prime umanissime risposte emotive. A seconda della gravità, e del tempo “sospeso” dalla vita abituale che la malattia comporta, la risposta emotiva può poi evocare risposte diverse, ancora più variegate a seconda della personalità e del livello spirituale di ciascuno.
Per chi vive la vita giorno per giorno, cercando di campare al meglio ma senza fede o slanci spirituali particolari, la malattia è solo una pesante palla al piede, proprio, altrui o delle diverse persone coinvolte. Una seccatura, o addirittura una violenza a tutto il progetto di relax e di vacanza che si era costruito. Per altri, è un modo inatteso e certo non desiderato di riconoscere che tutti i nostri programmi possono saltare in un minuto. Che la nostra illusione di controllo in realtà si scontra con limiti imprevedibili che ci obbligano a riconoscere le priorità ultime della nostra vita. Se fino a ieri l’obiettivo era divertirsi pazzamente, con una vacanza indimenticabile, in una notte l’obiettivo può diventare sopravvivere, o guarire con il minimo dei danni. Spaventa l’idea non solo di non gustarsi fino a fondo il meritato riposo, ma di arrivare all’autunno con un carico di dolore e sofferenza in più. C’è una via d’uscita? Rabbia e collera divorano solo energia vitale e possono diventare gravemente autodistruttivi. Per chi si ammala, è di grande conforto sentire l’affetto e l’amore non sospiroso di chi resta per assistere, per aiutare, per limitare la sofferenza. Per confortare, è essenziale il contatto fisico: una carezza, un massaggio gentile con la crema idratante alle mani, ai polsi, ai piedi, alle tempie. A volte il malato è stanco, sfibrato dal dolore; oppure è sfiduciato. Soprattutto, ha paura. Spesso tace, perché non ha più forze. Oppure perché lo disturbano le frasi false, le rassicurazioni inutili (“ti vedo bene”), i silenzi imbarazzati. Con una carezza affettuosa, con un massaggio delicato è possibile rompere il muro della solitudine e dello sconforto. Il corpo martoriato dalla malattia, perforato di flebo e tubi, avvilito, umiliato, ritrova dignità nella carezza che dice più di tante parole: “Sono qui con te, non avere paura, non sei più solo”. Perché una carezza sulla pelle è una carezza per l’anima.
La malattia ci obbliga a ripensare la nostra vita e il senso che essa può avere nonostante il dolore o oltre il dolore. Per chi assiste, e si trova con la doppia ferita di toccare con mano la malattia di una persona cara e il dolore dell’impossibilità, può essere saggio riconsiderare la pausa di assistenza estiva come un momento necessario per ripensare le proprie priorità. Accettando il rallentamento dei ritmi, la temporanea riduzione degli orizzonti di svago, cercando al contempo di mantenere da un lato degli spazi di riflessione, dall’altro comunque degli spazi di gioia e di ricarica fisica ed emotiva.
Per la riflessione, oltre al classico di Susan Sontag, possono essere preziosi dei piccoli libri spirituali come l’intenso e coraggioso “Ha senso la sofferenza?”, di Xavier Thévenot (Edizioni Qiqajon, 2009). Dice Thévenot, teologo salesiano: “Solo quello che costruisce e libera l’essere umano redime. Ora, la sofferenza in sé non lo fa, di conseguenza non può redimere. Lo fa, invece, il modo in cui ciascuno cerca di umanizzare la propria vita, dentro le sue sofferenze”. Anche d’estate, anche in vacanza o alla soglia della vacanza. Per chi assiste, e con dolore passa magari gran parte del giorno in ospedale, è indispensabile tenersi ogni giorno uno spazio per sé. Uno spazio di ricarica, anche piccolo, fosse solo una passeggiata, una nuotata, un giro in bicicletta. L’importante è che sia fisico, corporeo. Perché è indispensabile esprimere col movimento le emozioni nere che la malattia ci porta addosso, anche (e a volte soprattutto) quando tocca una persona amata. Ed è necessario ridare ascolto anche alle emozioni e sensazioni che il nostro corpo accumula quando assiste, alle tensioni muscolari, al senso di fatica e di perdita di energia, al senso di impotenza e di assurdo, alla malinconia e al dolore dell’assenza. Dando ascolto e spazio d’espressione alle emozioni che la malattia e l’assistenza ci evocano, è possibile dare comunque una direzione positiva anche alla pesantezza di un’estate di assistenza. Arrivando all’autunno con una comprensione più profonda di sé e della vita, una diversa disponibilità, e uno sguardo nuovo. Per ritornare poi ad immergersi nel fluire dei giorni con rinnovata passione e, insieme, con distaccata consapevolezza. Perché la malattia, figlia della sostanziale imprevedibilità dell’esistenza, ci insegna a vivere con passo leggero, avendo cura dei nostri affetti e del senso ultimo della vita.