Lo studio APPEAL (Advancing the Provision of Pain Education And Learning) ha valutato 242 facoltà di Medicina in 15 Paesi europei. L’82 per cento non ha un corso obbligatorio sul dolore. E comunque l’insegnamento resta del tutto marginale. Di conseguenza, il costo del dolore non diagnosticato e non trattato è calcolato tra il 3 e il 10% del PIL di ogni Paese, senza contare gli immensi costi non quantizzabili, in termini di sofferenza individuale, di perduta qualità di vita e opportunità di lavoro, dignità e gioia, per la persona che soffre ma anche per i suoi familiari che assistono impotenti alla devastazione che il dolore cronico può causare.
Come possiamo pensare di progredire nella diagnosi e cura del dolore se anche per le giovani generazioni di medici l’argomento resta un tabù? Le ragioni? Programmi vecchi. Insegnanti umanamente distratti o indifferenti. Poca attenzione al paziente come creatura che soffre e troppa attenzione alla tecnologia e ai numeri, come se la salute fosse un logaritmo o un trattato di statistica medica. La frattura che ha percorso tutto il Novecento “tra una medicina senz’anima e una psicologia senza corpo”, come sosteneva Alexander Lurjia, geniale neurologo russo, continua e si perpetua. Con due aggravanti: primo, un’esasperazione tecnologica che aumenta la distanza tra il medico e la persona che soffre. Il corpo diventa oggetto di studio, di indagini sofisticate e di chirurgie robotiche, mentre se ne smarrisce sempre più la dimensione critica ed esistenzialmente più rilevante, di uomo/donna/bambino che soffre. Secondo, la burocratizzazione degli ospedali, diventati aziende statali in cui i due terzi delle spese vanno per il personale amministrativo e una parte crescente del tempo/lavoro dei medici passa a compilare carte.
Il risultato è una crisi profonda del pianeta sanitario: con pazienti sempre più sgomenti all’idea di entrare in ospedali così distanti (con meritevoli eccezioni) dalla verità dolorosa del malato e una crisi sostanziale del rapporto fiduciario che dovrebbe essere il cuore pulsante di una sana relazione tra paziente e medico. Eppure il dolore è il sintomo principe di ogni patologia. E’ un semaforo rosso che ci accende sulla via della salute. E’ una sirena di allarme che dice una sola parola, indipendentemente dall’organo in questione: pericolo! Pericolo di cosa? Di danno funzionale e poi tissutale, di lesioni progressivamente irreversibili, di dolore che diventa malattia in sé: dolore neuropatico, la più devastante delle malattie. Pericolo di morte, se il dolore non è ascoltato o è troppo grave.
E’ urgente rimettere il dolore al centro dell’attenzione medica, dell’accuratezza diagnostica ma anche della centralità del rapporto tra il paziente e il medico. E’ nostro compito di medici, infermieri, ostetriche, fisioterapisti, psicologi ascoltare il dolore e riconoscere la sua sostanziale base biologica. Basta diagnosi “psicogene”, del tipo «il dolore è tutto nella sua testa». E’ tempo di riordinare le priorità diagnostiche. E il dolore è il primo della lista dei sintomi in quasi tutte le patologie. Devono cambiare i programmi universitari di Medicina, seguendo l’esempio della Francia, il Paese europeo più avanzato da questo punto di vista. Deve cambiare l’atteggiamento politico nei confronti del dolore cronico. Deve migliorare la cultura del dolore in Italia, che fa di noi il 21° Paese in Europa (dopo di noi solo la Grecia) per uso di farmaci analgesici.
Nel mio piccolo, con la mia Fondazione Alessandra Graziottin per la cura del dolore nella donna Onlus, organizzo corsi nazionali sul dolore per medici, psicologi, ostetriche. Nel degrado generale, su tutti i fronti, rimbocchiamoci le maniche, ciascuno nel proprio ambito. E’ tempo di agire, per migliorare la nostra società e la qualità di vita, in primis, di chi soffre.
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