«Sto per morire»: è difficile accettare questa frase quando è detta da una persona amata. Tanto più se è molto speciale per il nostro cuore: che sia la mamma adorata, il figlio prediletto, un grande amore, una sorella amatissima o l’amica del cuore. Soprattutto quando questa consapevolezza interviene durante una malattia grave o un incidente che non lascia scampo. La tendenza dei familiari e degli amici, in buonissima fede, è di negare questa possibilità: «Ma no, ma cosa dici! Vedrai che guarirai!», «Ma no, sei solo un po’ sfiduciato perché le cure sono aggressive. Vedrai che domani starai meglio», «Ma no, abbi fiducia. Anche il mese scorso ti sei ripresa benissimo dopo la chemio…», «Ma no…».
Di questo tema scomodo eppure centrale nella vita di tutti noi parla Marie de Hennezel in un libro da meditare: “La morte amica”, RCS Libri, Milano, 2007. E’ indispensabile non mentire: accettare la verità di questa sensazione, di questa intuizione, anche se ci arriva addosso come un macigno. E’ essenziale dirsi con semplicità le emozioni e i sentimenti dei momenti ultimi della vita. Solo la sincerità può aiutare in un dialogo intimo e profondo.
Il contatto con un essere umano che si prepara a morire impone un’attenzione e un rispetto particolari. Nella nostra paura di sentire quelle parole confluiscono bisogni, paure, desideri, speranze. Un magma di sentimenti ancora più difficile da districare se non abbiamo pensato e risolto con serenità l’idea della nostra morte. Dentro di noi, innanzitutto. Ci comportiamo come se fossimo eterni, mentre la grande falciatrice è qui accanto e potrebbe decidere di intervenire in un secondo: per un incidente, un colpo sparato a caso, un terremoto o un ciclone. Oppure una lunga malattia, che usura lentamente la speranza di vita. Al tempo stesso, la lucidità della persona che sta per morire – e lo sente, e ce lo dice – può metterci in estrema difficoltà: perché noi stessi non siamo pronti a lasciarla andare e ci aggrappiamo alla speranza con le unghie e con i denti. Perché ci sono dei non detti che ci pesano sul cuore come macigni, ma è troppo tardi per parlarne ora. Perché la speranza è l’ultima a morire, e non vogliamo e non possiamo lanciare la spugna. Perché quella morte ci obbliga a confrontarci con la nostra finitezza, con la nostra fragilità, con la nostra incompiutezza e inconcludenza. Nella negazione della morte che sta per portare via una persona amata si condensano spesso le emozioni e gli aspetti irrisolti della nostra vita. A volte, le frasi di rassicurazione ottengono l’effetto contrario: il malato va in agitazione. Si sente obbligato a una finzione che non solo non gli appartiene più, ma che lo priva anche della possibilità di una sincerità assoluta, lucida e determinata, e del piacere di dire le ultime volontà, sentendosi accolto e ascoltato.
Cosa conta in quei momenti? Non sentirsi soli, innanzitutto. Morire tra le braccia di una persona amata è il più consolante e pacificante degli addii. Possibilmente a casa, quel luogo sacro cui sentiamo di appartenere e in cui vogliamo dire addio al mondo, invece che nell’indifferenza asettica di un ospedale o peggio di una rianimazione. Dove è alto il rischio di morire più soli di un cane abbandonato, imbrigliati da una rete di fili, tubi e flebo, per molti più vicina a una camera di tortura che non a un luogo in cui morire con dignità, accompagnati e sereni. «La solitudine peggiore per un moribondo è non poter annunciare ai suoi cari che sta per morire», sostiene Marie de Hennezel. Chi non ne può parlare, né condividere con gli altri quello che gli ispira la prossimità di quel momento supremo, spesso non ha altra via d’uscita che la confusione mentale, il delirio, o addirittura il peggioramento del dolore, che almeno consente di parlare di qualcosa.
Il moribondo sa. Ha soltanto bisogno che lo si aiuti a dire ciò che sa. Perché gli è così difficile esprimerlo? A volte è persino la percezione dell’angoscia di chi lo circonda che gli impedisce di parlare e lo induce a tacere, quasi per proteggere gli altri da troppo dolore: il dirsi addio. Chi può parlare in modo diretto e dire che sta per morire, non subisce la propria morte, riesce a viverla da protagonista. Può allora attraversare la soglia scura, o luminosa, sentendosi compreso, consolato, e accompagnato. «Sandrina, sono pronta», mi ha detto mia nonna. Tutte e due sapevamo che era vero. L’ho abbracciata con tutto l’amore e la gratitudine che si può provare per una nonna adorata. In quei momenti di verità, e di intimità assoluta e sincera, si ha la luminosa sensazione che non è un addio. E’ solo un commosso arrivederci. Se ne è andata poco dopo, ma dentro il cuore non ci siamo lasciate mai.
Di questo tema scomodo eppure centrale nella vita di tutti noi parla Marie de Hennezel in un libro da meditare: “La morte amica”, RCS Libri, Milano, 2007. E’ indispensabile non mentire: accettare la verità di questa sensazione, di questa intuizione, anche se ci arriva addosso come un macigno. E’ essenziale dirsi con semplicità le emozioni e i sentimenti dei momenti ultimi della vita. Solo la sincerità può aiutare in un dialogo intimo e profondo.
Il contatto con un essere umano che si prepara a morire impone un’attenzione e un rispetto particolari. Nella nostra paura di sentire quelle parole confluiscono bisogni, paure, desideri, speranze. Un magma di sentimenti ancora più difficile da districare se non abbiamo pensato e risolto con serenità l’idea della nostra morte. Dentro di noi, innanzitutto. Ci comportiamo come se fossimo eterni, mentre la grande falciatrice è qui accanto e potrebbe decidere di intervenire in un secondo: per un incidente, un colpo sparato a caso, un terremoto o un ciclone. Oppure una lunga malattia, che usura lentamente la speranza di vita. Al tempo stesso, la lucidità della persona che sta per morire – e lo sente, e ce lo dice – può metterci in estrema difficoltà: perché noi stessi non siamo pronti a lasciarla andare e ci aggrappiamo alla speranza con le unghie e con i denti. Perché ci sono dei non detti che ci pesano sul cuore come macigni, ma è troppo tardi per parlarne ora. Perché la speranza è l’ultima a morire, e non vogliamo e non possiamo lanciare la spugna. Perché quella morte ci obbliga a confrontarci con la nostra finitezza, con la nostra fragilità, con la nostra incompiutezza e inconcludenza. Nella negazione della morte che sta per portare via una persona amata si condensano spesso le emozioni e gli aspetti irrisolti della nostra vita. A volte, le frasi di rassicurazione ottengono l’effetto contrario: il malato va in agitazione. Si sente obbligato a una finzione che non solo non gli appartiene più, ma che lo priva anche della possibilità di una sincerità assoluta, lucida e determinata, e del piacere di dire le ultime volontà, sentendosi accolto e ascoltato.
Cosa conta in quei momenti? Non sentirsi soli, innanzitutto. Morire tra le braccia di una persona amata è il più consolante e pacificante degli addii. Possibilmente a casa, quel luogo sacro cui sentiamo di appartenere e in cui vogliamo dire addio al mondo, invece che nell’indifferenza asettica di un ospedale o peggio di una rianimazione. Dove è alto il rischio di morire più soli di un cane abbandonato, imbrigliati da una rete di fili, tubi e flebo, per molti più vicina a una camera di tortura che non a un luogo in cui morire con dignità, accompagnati e sereni. «La solitudine peggiore per un moribondo è non poter annunciare ai suoi cari che sta per morire», sostiene Marie de Hennezel. Chi non ne può parlare, né condividere con gli altri quello che gli ispira la prossimità di quel momento supremo, spesso non ha altra via d’uscita che la confusione mentale, il delirio, o addirittura il peggioramento del dolore, che almeno consente di parlare di qualcosa.
Il moribondo sa. Ha soltanto bisogno che lo si aiuti a dire ciò che sa. Perché gli è così difficile esprimerlo? A volte è persino la percezione dell’angoscia di chi lo circonda che gli impedisce di parlare e lo induce a tacere, quasi per proteggere gli altri da troppo dolore: il dirsi addio. Chi può parlare in modo diretto e dire che sta per morire, non subisce la propria morte, riesce a viverla da protagonista. Può allora attraversare la soglia scura, o luminosa, sentendosi compreso, consolato, e accompagnato. «Sandrina, sono pronta», mi ha detto mia nonna. Tutte e due sapevamo che era vero. L’ho abbracciata con tutto l’amore e la gratitudine che si può provare per una nonna adorata. In quei momenti di verità, e di intimità assoluta e sincera, si ha la luminosa sensazione che non è un addio. E’ solo un commosso arrivederci. Se ne è andata poco dopo, ma dentro il cuore non ci siamo lasciate mai.
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