“Lasciami morire come voglio”. Questa non può essere una richiesta da soddisfare o meno ad arbitrio di altri, medici, autorità politiche o religiose che siano, ma un diritto inalienabile, soprattutto quando espresso in modo inequivocabile. L’ultima amarissima storia di violazione di questo diritto sacrosanto, passata in sordina, merita invece tutta la nostra attenzione per molteplici aspetti.
Il caso: un signore, affetto da neoplasia gastrica maligna molto avanzata, deve ricoverarsi in ospedale. L’uomo, testimone di Geova, chiarisce di non volere trasfusioni di sangue, contrarie alla sua fede. Viene per questo dimesso da un primo ospedale milanese e inviato ad un secondo, dove, anche per iscritto, gli viene garantito che la sua volontà sarà rispettata. Tuttavia le sue condizioni precipitano in pochi giorni, serve una trasfusione. Lui, i suoi familiari e i suoi amici si oppongono. Inutile. I medici chiedono un parere psichiatrico: l’uomo è sano di mente. L’ospedale si fa allora autorizzare dal magistrato e pratica al pover’uomo un trattamento sanitario obbligatorio. La polizia allontana i familiari, l’uomo viene bloccato a letto, urlante, e a forza gli vengono trasfuse due sacche di sangue. Ne serve una terza, ma l’uomo, travolto da questa spaventosa violenza, dall’angoscia e dallo stress acuto, muore d’infarto. Davvero di crepacuore.
Giudichi il lettore: come ci saremmo sentiti al posto di quest’uomo e della sua famiglia? Non sono testimone di Geova, ma credo sia doveroso garantire il rispetto della volontà e della fede personale, soprattutto quando le implicazioni riguardano esclusivamente la persona in questione e il suo pieno diritto di accettare serenamente anche il proprio tempo del morire.
Rileggiamo la storia: l’uomo ha un tumore gastrico avanzato. E’ una neoplasia a quel punto fatale, una trasfusione può allungare la vita al massimo di uno, due mesi. Che senso ha imporre con questa violenza e brutalità una trasfusione di fatto palliativa nel migliore dei casi? L’uomo aveva dichiarato per iscritto di non volere trasfusioni e gli era stato garantito il rispetto del suo volere. Ancora una volta, allora, consensi o meno alle cure sono una farsa. Non basta scriverlo, non basta dichiararlo, non basta che l’intera famiglia e perfino gli amici lo sostengano nella volontà. Altro che testamento biologico. Cos’altro deve fare un uomo, o una donna, per vedersi rispettato anche nel diritto di morire come crede? Soprattutto se ha una malattia in fase terminale, potrà pur scegliere come vivere gli ultimi giorni! Può doversi rivolgere all’ospedale, per esempio per ricevere cure palliative antidolore, sacrosante. Perché non rivalorizziamo l’importanza dell’accompagnare a morire in piena dignità, con i familiari e gli amici vicino, magari in ospedale, se la situazione lo richiede, ma in una stanza dove ci sia ancora un minimo di calore e di tenerezza, invece che in una rianimazione, soli e disperati, pieni di tubi che rendono odioso anche il morire? Perché anche noi medici insistiamo in questa illusione di onnipotenza con accanimenti terapeutici che non danno affatto giorni alla vita, ma la brutalizzano nel suo momento più sacro?
L’uomo è sano di mente. Lo conferma la perizia psichiatrica. Dovremo, ognuno di noi, sottoporci ad una perizia di questo tipo per vedere rispettata la nostra volontà rispetto alle cure? E poi il modo: con la polizia che allontana i parenti (!) e l’uomo legato al letto per subire questo ultimo violento oltraggio. Dove sono finiti la capacità di ascolto, il rispetto, la compassione, l’empatia?
Esistono tanti tipi di violenza, in questo mondo feroce, ma questa non è da meno di altre, anche se vestita di camice bianco, in questo caso chiarissimo ed estremo.
Questo senza negare che il dilemma, anche grave, può porsi per ogni medico che, in situazioni meno evidenti, si trovi ad affrontare due rischi: una denuncia se impone cure che il paziente non vuole, ma anche l’opposto, magari da parte dei parenti, se non somministra cure necessarie salvavita che il paziente non desidera. Il momento è storicamente critico, dal punto di vista etico, deontologico e normativo. E’ pesante infatti il contrasto anche tra due dei magistrati che sono intervenuti sul caso: il primo che autorizza il trattamento sanitario obbligatorio, senza intuirne i rischi mortali, l’ultimo che lo stigmatizza nettamente.
Ecco l’epilogo: la denuncia penale viene archiviata perché non c’è reato. Nel processo civile il giudice valuta l’accaduto da un’altra prospettiva, esprimendo sconcerto e imbarazzante perplessità nei confronti di un comportamento dei sanitari così palesemente inadeguato e brutale, che viola precisi diritti costituzionalmente protetti, dagli articoli 2, 13 e 31, quali la libertà personale, la dignità e la solidarietà. L’ospedale e quattro sanitari sono condannati a risarcire 20.000 euro alla vedova. Per la nostra legge vale così poco una morte tanto orrenda e impietosa?
Che dire? Il modo di questa morte resta purtroppo irrimediabile. Tuttavia questa storia amara dovrebbe rendere ancora più urgente la riflessione etica e normativa sullo spazio e i limiti degli atti di disposizione del proprio corpo, sul valore delle dichiarazioni della persona rispetto alle cure, sulla delicata posizione dei medici che quotidianamente si trovano a dover decidere in situazioni etiche complesse, in cui si scontrano non solo desideri individuali ma anche visioni del mondo antitetiche. Resta poi doveroso, per ciascuno di noi, contribuire a una riflessione civile e, soprattutto, umana, capace di identificarsi con il sentire di chi sta per morire. Solo una profonda empatia per il morente, e la riscoperta del valore di una morte accettata e accompagnata, può aiutarci a superare l’impasse, anche legislativa e applicativa, cui altrimenti ci consegna la rigidità di diverse e contrapposte ideologie e di opposti poteri.
Per un approfondimento spirituale del tema, consigliamo la lettura di:
Bioetica e scontro politico: i giorni cattivi del caso Englaro (Enzo Bianchi) - Fondazione Alessandra Graziottin
Il caso: un signore, affetto da neoplasia gastrica maligna molto avanzata, deve ricoverarsi in ospedale. L’uomo, testimone di Geova, chiarisce di non volere trasfusioni di sangue, contrarie alla sua fede. Viene per questo dimesso da un primo ospedale milanese e inviato ad un secondo, dove, anche per iscritto, gli viene garantito che la sua volontà sarà rispettata. Tuttavia le sue condizioni precipitano in pochi giorni, serve una trasfusione. Lui, i suoi familiari e i suoi amici si oppongono. Inutile. I medici chiedono un parere psichiatrico: l’uomo è sano di mente. L’ospedale si fa allora autorizzare dal magistrato e pratica al pover’uomo un trattamento sanitario obbligatorio. La polizia allontana i familiari, l’uomo viene bloccato a letto, urlante, e a forza gli vengono trasfuse due sacche di sangue. Ne serve una terza, ma l’uomo, travolto da questa spaventosa violenza, dall’angoscia e dallo stress acuto, muore d’infarto. Davvero di crepacuore.
Giudichi il lettore: come ci saremmo sentiti al posto di quest’uomo e della sua famiglia? Non sono testimone di Geova, ma credo sia doveroso garantire il rispetto della volontà e della fede personale, soprattutto quando le implicazioni riguardano esclusivamente la persona in questione e il suo pieno diritto di accettare serenamente anche il proprio tempo del morire.
Rileggiamo la storia: l’uomo ha un tumore gastrico avanzato. E’ una neoplasia a quel punto fatale, una trasfusione può allungare la vita al massimo di uno, due mesi. Che senso ha imporre con questa violenza e brutalità una trasfusione di fatto palliativa nel migliore dei casi? L’uomo aveva dichiarato per iscritto di non volere trasfusioni e gli era stato garantito il rispetto del suo volere. Ancora una volta, allora, consensi o meno alle cure sono una farsa. Non basta scriverlo, non basta dichiararlo, non basta che l’intera famiglia e perfino gli amici lo sostengano nella volontà. Altro che testamento biologico. Cos’altro deve fare un uomo, o una donna, per vedersi rispettato anche nel diritto di morire come crede? Soprattutto se ha una malattia in fase terminale, potrà pur scegliere come vivere gli ultimi giorni! Può doversi rivolgere all’ospedale, per esempio per ricevere cure palliative antidolore, sacrosante. Perché non rivalorizziamo l’importanza dell’accompagnare a morire in piena dignità, con i familiari e gli amici vicino, magari in ospedale, se la situazione lo richiede, ma in una stanza dove ci sia ancora un minimo di calore e di tenerezza, invece che in una rianimazione, soli e disperati, pieni di tubi che rendono odioso anche il morire? Perché anche noi medici insistiamo in questa illusione di onnipotenza con accanimenti terapeutici che non danno affatto giorni alla vita, ma la brutalizzano nel suo momento più sacro?
L’uomo è sano di mente. Lo conferma la perizia psichiatrica. Dovremo, ognuno di noi, sottoporci ad una perizia di questo tipo per vedere rispettata la nostra volontà rispetto alle cure? E poi il modo: con la polizia che allontana i parenti (!) e l’uomo legato al letto per subire questo ultimo violento oltraggio. Dove sono finiti la capacità di ascolto, il rispetto, la compassione, l’empatia?
Esistono tanti tipi di violenza, in questo mondo feroce, ma questa non è da meno di altre, anche se vestita di camice bianco, in questo caso chiarissimo ed estremo.
Questo senza negare che il dilemma, anche grave, può porsi per ogni medico che, in situazioni meno evidenti, si trovi ad affrontare due rischi: una denuncia se impone cure che il paziente non vuole, ma anche l’opposto, magari da parte dei parenti, se non somministra cure necessarie salvavita che il paziente non desidera. Il momento è storicamente critico, dal punto di vista etico, deontologico e normativo. E’ pesante infatti il contrasto anche tra due dei magistrati che sono intervenuti sul caso: il primo che autorizza il trattamento sanitario obbligatorio, senza intuirne i rischi mortali, l’ultimo che lo stigmatizza nettamente.
Ecco l’epilogo: la denuncia penale viene archiviata perché non c’è reato. Nel processo civile il giudice valuta l’accaduto da un’altra prospettiva, esprimendo sconcerto e imbarazzante perplessità nei confronti di un comportamento dei sanitari così palesemente inadeguato e brutale, che viola precisi diritti costituzionalmente protetti, dagli articoli 2, 13 e 31, quali la libertà personale, la dignità e la solidarietà. L’ospedale e quattro sanitari sono condannati a risarcire 20.000 euro alla vedova. Per la nostra legge vale così poco una morte tanto orrenda e impietosa?
Che dire? Il modo di questa morte resta purtroppo irrimediabile. Tuttavia questa storia amara dovrebbe rendere ancora più urgente la riflessione etica e normativa sullo spazio e i limiti degli atti di disposizione del proprio corpo, sul valore delle dichiarazioni della persona rispetto alle cure, sulla delicata posizione dei medici che quotidianamente si trovano a dover decidere in situazioni etiche complesse, in cui si scontrano non solo desideri individuali ma anche visioni del mondo antitetiche. Resta poi doveroso, per ciascuno di noi, contribuire a una riflessione civile e, soprattutto, umana, capace di identificarsi con il sentire di chi sta per morire. Solo una profonda empatia per il morente, e la riscoperta del valore di una morte accettata e accompagnata, può aiutarci a superare l’impasse, anche legislativa e applicativa, cui altrimenti ci consegna la rigidità di diverse e contrapposte ideologie e di opposti poteri.
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Accanimento terapeutico Etica e bioetica Rapporto con il malato Rapporto medico-paziente