«Vorrei un figlio che mi somigli, e ci somigli». Una delle ragioni più potenti della procreazione umana è il bisogno di riprodurre i propri geni e quelli del partner. Di dare una continuità biologica alla propria famiglia. Questo era emerso con chiarezza assoluta anche in una complessa ricerca che condussi tanti anni fa su coppie infertili all’Università di Genova, in collaborazione con i dipartimenti di Matematica e di Psicologia. Tra centinaia di variabili, elaborate per nebulose di aggregazione al fine di individuare le dimensioni più significative, era stato confermato scientificamente quello che il buon senso e il cuore sapevano già: ciò che spinge le coppie ad attraversare percorsi frustranti, faticosi, difficili e costosi è innanzitutto il bisogno/desiderio di continuare se stessi e i propri geni attraverso un figlio assolutamente proprio dal punto di vista genetico.
Questa motivazione persiste intatta anche nelle coppie che cercano una madre surrogata, e che non sono disposte ad accettare l’idea di un’adozione, proprio per la sostanziale estraneità genetica del piccolo. Piace l’idea di un bambino che si sappia a chi assomiglia, in cui ritrovare tratti fisici, ma anche temperamentali, sia della persona amata sia della propria famiglia. Piace il senso di familiarità immediato quando il piccolo, crescendo, mostra affinità elettive con l’uno o l’altro dei genitori, quell’intuirsi con un battito di ciglia, con un gesto o un sorriso, che è uno dei grandi piaceri dell’essere genitori. Ma anche dell’essere zii e nonni. E c’è una sostanziale inaccettazione del limite imposto dall’impossibilità procreativa della donna. Dietro la coppia che cerca la madre surrogata c’è spesso una famiglia che non accetta la sterilità di lei e che si entusiasma all’idea che il problema della continuità familiare possa essere superato con questa peculiare soluzione: «Mi interessa il fine: avere un figlio mio/nostro, non il mezzo» (l’utero in affitto). Questa è la motivazione.
Per la madre surrogata la motivazione principe è il bisogno di denaro, sfruttando il proprio potere procreativo (“bio-power”), ragione dominante nei Paesi a basso reddito dove l’affitto dell’utero sta diventando una possibile fonte di reddito. Anche se il business è soprattutto delle cliniche e dei medici che seguono questo tipo di procreazione assistita. Nei Paesi ad alto reddito emerge, a volte, il desiderio di regalare la gioia di un figlio geneticamente proprio a coppie che altrimenti non potrebbero averlo.
Al di là della motivazione, molti si chiedono: come fa una donna a separarsi da un figlio che ha tenuto in grembo per nove mesi? Che ha sentito crescere, che ha sognato o immaginato? Un figlio che, seppur geneticamente estraneo, viene molto “modulato” nell’espressione dei propri geni, in positivo o negativo, dall’ambiente biochimico ed emozionale della donna gravida. Basti pensare a quanto lo stile di vita in gravidanza condiziona la salute del bambino: in positivo, se la donna è sana, attenta e ben seguita dal punto di vista medico; in negativo, se fuma, beve o si droga, se è stressata o malnutrita, se è malata. In più, biologicamente, la donna è programmata per affezionarsi al piccolo: i neurormoni, fra cui l’ossitocina e la vasopressina, “scrivono” nel suo cervello che quel bimbo che lascerà alla nascita, dandolo per sempre a una coppia di sconosciuti, è ”suo”. Razionalmente può anche dirsi che il piccolo non le appartiene, “basta non pensarci”. Dal punto di vita affettivo e simbolico, tuttavia, la questione è molto più complessa. Qualche volta la donna non ce la fa. E rifiuta di consegnare il piccolo. E il bambino? Spesso la modalità della nascita non viene spiegata: «E’ biologicamente nostro – dicono i genitori – perché complicargli la vita? Lo abbiamo desiderato da impazzire e lo amiamo. Questo solo conta». I piccoli come stanno? Studi preliminari indicano un sostanziale benessere, anche se in alcuni casi la relazione madre-bambino sembra meno ottimale rispetto a un concepimento naturale.
E allora? Se proprio si vuole un figlio, dicono alcuni esperti, è meglio un utero di carne e un corpo di donna con le sue emozioni che un’incubatrice artificiale, come forse sarà possibile avere in futuro…
Questa motivazione persiste intatta anche nelle coppie che cercano una madre surrogata, e che non sono disposte ad accettare l’idea di un’adozione, proprio per la sostanziale estraneità genetica del piccolo. Piace l’idea di un bambino che si sappia a chi assomiglia, in cui ritrovare tratti fisici, ma anche temperamentali, sia della persona amata sia della propria famiglia. Piace il senso di familiarità immediato quando il piccolo, crescendo, mostra affinità elettive con l’uno o l’altro dei genitori, quell’intuirsi con un battito di ciglia, con un gesto o un sorriso, che è uno dei grandi piaceri dell’essere genitori. Ma anche dell’essere zii e nonni. E c’è una sostanziale inaccettazione del limite imposto dall’impossibilità procreativa della donna. Dietro la coppia che cerca la madre surrogata c’è spesso una famiglia che non accetta la sterilità di lei e che si entusiasma all’idea che il problema della continuità familiare possa essere superato con questa peculiare soluzione: «Mi interessa il fine: avere un figlio mio/nostro, non il mezzo» (l’utero in affitto). Questa è la motivazione.
Per la madre surrogata la motivazione principe è il bisogno di denaro, sfruttando il proprio potere procreativo (“bio-power”), ragione dominante nei Paesi a basso reddito dove l’affitto dell’utero sta diventando una possibile fonte di reddito. Anche se il business è soprattutto delle cliniche e dei medici che seguono questo tipo di procreazione assistita. Nei Paesi ad alto reddito emerge, a volte, il desiderio di regalare la gioia di un figlio geneticamente proprio a coppie che altrimenti non potrebbero averlo.
Al di là della motivazione, molti si chiedono: come fa una donna a separarsi da un figlio che ha tenuto in grembo per nove mesi? Che ha sentito crescere, che ha sognato o immaginato? Un figlio che, seppur geneticamente estraneo, viene molto “modulato” nell’espressione dei propri geni, in positivo o negativo, dall’ambiente biochimico ed emozionale della donna gravida. Basti pensare a quanto lo stile di vita in gravidanza condiziona la salute del bambino: in positivo, se la donna è sana, attenta e ben seguita dal punto di vista medico; in negativo, se fuma, beve o si droga, se è stressata o malnutrita, se è malata. In più, biologicamente, la donna è programmata per affezionarsi al piccolo: i neurormoni, fra cui l’ossitocina e la vasopressina, “scrivono” nel suo cervello che quel bimbo che lascerà alla nascita, dandolo per sempre a una coppia di sconosciuti, è ”suo”. Razionalmente può anche dirsi che il piccolo non le appartiene, “basta non pensarci”. Dal punto di vita affettivo e simbolico, tuttavia, la questione è molto più complessa. Qualche volta la donna non ce la fa. E rifiuta di consegnare il piccolo. E il bambino? Spesso la modalità della nascita non viene spiegata: «E’ biologicamente nostro – dicono i genitori – perché complicargli la vita? Lo abbiamo desiderato da impazzire e lo amiamo. Questo solo conta». I piccoli come stanno? Studi preliminari indicano un sostanziale benessere, anche se in alcuni casi la relazione madre-bambino sembra meno ottimale rispetto a un concepimento naturale.
E allora? Se proprio si vuole un figlio, dicono alcuni esperti, è meglio un utero di carne e un corpo di donna con le sue emozioni che un’incubatrice artificiale, come forse sarà possibile avere in futuro…
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