“Secondo lei si può essere felici pur avendo una malattia grave?”. Questa fulminante domanda di una mia giovane paziente, che chiamerò Lucia, sopravvissuta a stento a una leucemia molto aggressiva, mi ha lasciata spiazzata. A 32 anni si è trovata con una diagnosi di cancro, una menopausa precoce da chemioterapia e, nel giro di un anno, con l’abbandono da parte del fidanzato che “non poteva reggere l’idea di restare senza figli”. Un naufragio in cui ha rischiato di essere travolta più dai flutti dolorosi dell’abbandono che non da quelli della malattia in sé. Un solido aiuto farmacologico antidepressivo, una necessaria terapia ormonale sostitutiva, per curare i sintomi devastanti della menopausa, ancora più gravi in giovane età, e una psicoterapia di supporto l’hanno aiutata a riprendere il filo della propria vita.
Recuperato il baricentro della propria esistenza – “Sì, ho perso tutto, ma ho salvato me stessa” – Lucia si interroga ora su quanto la felicità sia ancora possibile per lei. “Chi mi vorrà, dottoressa, se anche il mio fidanzato, che pure mi ha voluto tanto bene e mi è stato vicino nei giorni peggiori della malattia, se ne è poi andato perché non posso dargli un figlio? E con questa legge che c’è in Italia, nemmeno l’ovodonazione è possibile. Io l’avrei fatta, pur di avere un bambino nostro. E adesso, mi chiedo, che vita mi resta? Come, da dove posso ricominciare per essere almeno un po’ felice?”.
La domanda di Lucia, sulla compatibilità tra malattia e felicità pone un problema etico profondo. A prima vista, queste due condizioni sembrerebbero l’una la negazione dell’altra. Invece, il dialogo quotidiano con donne coraggiose, in lotta con malattie gravi, come tumori o malattie degenerative, quali la sclerosi multipla, e capaci di essere ancora, a volte, persino felici, mi ha portato a una conclusione diversa e più aperta sulla straordinaria capacità umana di saper reagire alle avversità più dure.
Credo che la felicità non sia incompatibile con la sofferenza né con la malattia, quando per felicità si intenda la capacità di trovare un significato, una soddisfazione nel compimento di sé, ogni giorno. Qui sta il punto. Lo suggerisce bene la radice della parola felicità che nell’origine latina, che assimila felice(m) a fecundus, significa “fertile, nutriente”. In senso profondo, allora, può la malattia “nutrire” o far crescere un atteggiamento interiore, una consapevolezza diversa, uno sguardo sul mondo che renda ancora possibile quella magìa interiore che chiamiamo felicità?
Forse sì: come la malattia può essere compatibile con il benessere interiore (nel senso che possono contenersi a vicenda), così il dolore e la sofferenza possono essere compatibili con la felicità, purché nella propria educazione e nei propri pensieri si sia integrato il fatto che nella vita c’è un ineludibile spazio per il soffrire.
Il filosofo Karl Jaspers, in Volontà e destino (Il Melangolo, 1999), parlando della propria malattia, scrive a questo proposito pagine memorabili, tra le sue migliori, che possono aiutarci a trovare il filo sottile che può riportarci alla possibilità di felicità, nonostante la malattia (purché il dolore non sia diventato cronico e devastante): “La coscienza dell’inevitabile richiede di accettare la malattia. Essa diviene inseparabile dalla nostra esistenza personale. Si diviene coscienti di un confine insuperabile. Familiarizzarsi con essa senza dissimulazione è il principio a partire dal quale si può “accettare” la propria malattia. La malattia risveglia dalle cose ovvie (il corsivo è mio), altrimenti indiscusse. Richiede una vita sotto condizioni eccezionali”.
Ecco la chiave per riscoprire almeno la possibilità di essere felici, nonostante tutto: il risveglio dalle cose ovvie. Il tornare ad accorgersi della magìa di ogni giorno, in cui non ci siano il dolore o altri sintomi invalidanti. Il riassaporare, come già dicevamo la settimana scorsa, le piccole cose che, date per scontate da sani, diventano improvvisamente preziose quando siamo malati e ci rendiamo conto di averle quasi perdute: un buon sonno ristoratore, una digestione non faticosa, la possibilità di camminare da soli, l’abbraccio di un figlio, un dialogo ritrovato con la propria compagna, un fiore sbocciato sul balcone, una giornata di sole. Certo, si dirà, questo recupero da un’assenza di benessere e di salute può dare sollievo e persino un picco di buon umore, ma non è la felicità. E tuttavia, e con un passo decisamente più avanzato dal punto di vista interiore, la malattia può aiutarci a togliere le lenti grigie, così frequenti in chi è sano, per cui tutto ciò che sembra garantito – anche la salute e il benessere – ci diventa indifferente. A riassaporare i momenti di tregua dalla malattia come “rimbalzi” di felicità. Più magicamente ancora, se la voglia di vivere (ri)nasce intensa e profonda, quando pensavamo che il presente fosse solo dura lotta per la sopravvivenza, si può arrivare a quella che Nietzsche chiamava la “Grande Salute”: “Un raro senso dell’umorismo, coraggio e spirito di adattamento”. In fondo, chi sa ancora sorridere alla vita, anche nella malattia, ha imparato a coltivare un suo modo più consapevole, sottile e ingegnoso di vedere e interpretare la realtà, ponendone in risalto gli aspetti emozionanti, toccanti o divertenti, o singolarmente poetici. Aprendo così le porte ad incontri e momenti felici che non si sarebbero realizzati se l’anima fosse rimasta intrappolata nelle paludi sfiduciate causate dalla malattia o dall’inquieta inerzia quotidiana. Con la curiosità affettuosa e struggente di chi ha (ri)scoperto di amare profondamente la vita, e i suoi raggi di sole, prima che sia giunta silenziosa l’ultima sera.
Recuperato il baricentro della propria esistenza – “Sì, ho perso tutto, ma ho salvato me stessa” – Lucia si interroga ora su quanto la felicità sia ancora possibile per lei. “Chi mi vorrà, dottoressa, se anche il mio fidanzato, che pure mi ha voluto tanto bene e mi è stato vicino nei giorni peggiori della malattia, se ne è poi andato perché non posso dargli un figlio? E con questa legge che c’è in Italia, nemmeno l’ovodonazione è possibile. Io l’avrei fatta, pur di avere un bambino nostro. E adesso, mi chiedo, che vita mi resta? Come, da dove posso ricominciare per essere almeno un po’ felice?”.
La domanda di Lucia, sulla compatibilità tra malattia e felicità pone un problema etico profondo. A prima vista, queste due condizioni sembrerebbero l’una la negazione dell’altra. Invece, il dialogo quotidiano con donne coraggiose, in lotta con malattie gravi, come tumori o malattie degenerative, quali la sclerosi multipla, e capaci di essere ancora, a volte, persino felici, mi ha portato a una conclusione diversa e più aperta sulla straordinaria capacità umana di saper reagire alle avversità più dure.
Credo che la felicità non sia incompatibile con la sofferenza né con la malattia, quando per felicità si intenda la capacità di trovare un significato, una soddisfazione nel compimento di sé, ogni giorno. Qui sta il punto. Lo suggerisce bene la radice della parola felicità che nell’origine latina, che assimila felice(m) a fecundus, significa “fertile, nutriente”. In senso profondo, allora, può la malattia “nutrire” o far crescere un atteggiamento interiore, una consapevolezza diversa, uno sguardo sul mondo che renda ancora possibile quella magìa interiore che chiamiamo felicità?
Forse sì: come la malattia può essere compatibile con il benessere interiore (nel senso che possono contenersi a vicenda), così il dolore e la sofferenza possono essere compatibili con la felicità, purché nella propria educazione e nei propri pensieri si sia integrato il fatto che nella vita c’è un ineludibile spazio per il soffrire.
Il filosofo Karl Jaspers, in Volontà e destino (Il Melangolo, 1999), parlando della propria malattia, scrive a questo proposito pagine memorabili, tra le sue migliori, che possono aiutarci a trovare il filo sottile che può riportarci alla possibilità di felicità, nonostante la malattia (purché il dolore non sia diventato cronico e devastante): “La coscienza dell’inevitabile richiede di accettare la malattia. Essa diviene inseparabile dalla nostra esistenza personale. Si diviene coscienti di un confine insuperabile. Familiarizzarsi con essa senza dissimulazione è il principio a partire dal quale si può “accettare” la propria malattia. La malattia risveglia dalle cose ovvie (il corsivo è mio), altrimenti indiscusse. Richiede una vita sotto condizioni eccezionali”.
Ecco la chiave per riscoprire almeno la possibilità di essere felici, nonostante tutto: il risveglio dalle cose ovvie. Il tornare ad accorgersi della magìa di ogni giorno, in cui non ci siano il dolore o altri sintomi invalidanti. Il riassaporare, come già dicevamo la settimana scorsa, le piccole cose che, date per scontate da sani, diventano improvvisamente preziose quando siamo malati e ci rendiamo conto di averle quasi perdute: un buon sonno ristoratore, una digestione non faticosa, la possibilità di camminare da soli, l’abbraccio di un figlio, un dialogo ritrovato con la propria compagna, un fiore sbocciato sul balcone, una giornata di sole. Certo, si dirà, questo recupero da un’assenza di benessere e di salute può dare sollievo e persino un picco di buon umore, ma non è la felicità. E tuttavia, e con un passo decisamente più avanzato dal punto di vista interiore, la malattia può aiutarci a togliere le lenti grigie, così frequenti in chi è sano, per cui tutto ciò che sembra garantito – anche la salute e il benessere – ci diventa indifferente. A riassaporare i momenti di tregua dalla malattia come “rimbalzi” di felicità. Più magicamente ancora, se la voglia di vivere (ri)nasce intensa e profonda, quando pensavamo che il presente fosse solo dura lotta per la sopravvivenza, si può arrivare a quella che Nietzsche chiamava la “Grande Salute”: “Un raro senso dell’umorismo, coraggio e spirito di adattamento”. In fondo, chi sa ancora sorridere alla vita, anche nella malattia, ha imparato a coltivare un suo modo più consapevole, sottile e ingegnoso di vedere e interpretare la realtà, ponendone in risalto gli aspetti emozionanti, toccanti o divertenti, o singolarmente poetici. Aprendo così le porte ad incontri e momenti felici che non si sarebbero realizzati se l’anima fosse rimasta intrappolata nelle paludi sfiduciate causate dalla malattia o dall’inquieta inerzia quotidiana. Con la curiosità affettuosa e struggente di chi ha (ri)scoperto di amare profondamente la vita, e i suoi raggi di sole, prima che sia giunta silenziosa l’ultima sera.
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