Perché in (quasi) tutto il mondo ad alto reddito furoreggiano le trasmissioni televisive in cui concorrono persone appassionate di canto – specie lirico, ma non solo – che nella vita fanno tutt’altro? Gli ingredienti di questo successo transculturale sono molteplici: il più evidente è il gusto, per chi ascolta, di assaporare arie note, e amate, con flash-back emotivi che riportano a quel momento della vita in cui quell’aria è stata ascoltata per la prima volta, o in cui si è stati felici a teatro, in un viaggio, o a una festa. Le emozioni regalate da una musica amata sono potenti e molteplici: e tengono inchiodati al video (o su internet) milioni di spettatori. Un amarcord uditivo cui è difficile resistere, soprattutto la sera, quando si è stanchi, quando i problemi appesantiscono i pensieri, quando la routine ci schiaccia come un piombo, e voci potenti, vibranti ed educate ci portano in un mondo diverso, fatto di bellezza e di poesia. Una fuga in un’isola (uditiva) avvolgente, invece di lasciarci tormentare da talk-show urlati che non si sopportano più.
Tuttavia non è solo un’attrazione di musica. L’attenzione è catturata anche dalla curiosità di riconoscere abilità, freschezze e talenti nuovi, o arbìtri e inadeguatezze che vengono peraltro puniti con l’eliminazione. C’è il gusto di scegliere mentalmente il proprio vincente, e vedere se la giuria voterà così o no. Infervorandosi se si guarda la trasmissione con familiari o amici.
Più in profondità, per il grande pubblico c’è il gusto di vedere in gara persone normali – con cui è facile identificarsi – che hanno avuto il coraggio di coltivare per anni un sogno, una passione, con rigore e disciplina. E sono toccanti i ritratti, di ragazzi e ragazze, di uomini e donne, che fanno i lavori più vari – il barista, il piastrellista, la commessa – e intanto studiano, solfeggiano, cantano. Crescono dal punto di vista artistico, e intanto faticano in normalissime, e a volte difficili, vite quotidiane. Sullo sfondo, famiglie sane: genitori che hanno trasmesso la passione del canto, anche solo come diletto personale, e che pure in famiglie molto semplici hanno incoraggiato i figli a inseguire il loro sogno, a non mollare. Madri, e tanti padri, che sono i primi fan, i primi sostenitori. Non tanto, o non solo, per ambizione personale (quella si vede di più nei genitori dei bambini che partecipano a concorsi canori) ma proprio perché sentono il valore di inseguire un sogno di realizzazione diversa. Ruolo maieutico ancora più preciso quando la vocazione affiora tardi, dopo un percorso carsico spesso dovuto anche alla scarse opportunità di studiare canto in piccoli paesi e con limitati mezzi economici. C’è allora la soddisfazione di vedere che in quel contesto la bravura premia; che la tecnica canora non s’improvvisa ma richiede dedizione, studio, tempo e sacrifici; che si può uscire dall’anonimato per un talento vero coltivato, per un sogno non tradito e non abbandonato, per un progetto lasciato e ritrovato, anche quando la strada sembrava lunga e senza esito certo, perché senza sogni veri la vita s’intristisce, pena e scivola via, senza più gioia, senza più emozioni.
Non tutto luccica, certo, dietro la scena. Ma fa bene al cuore poter (ri)pensare e poter (ri)credere che impegnandosi si possa cambiare la propria vita, portandola dalla normalità all’unicità. Per cantare bene non serve essere figli di, amanti di, iscritti a, portaborse di. Non serve puntare sulla bellezza esteriore (basta una quieta normalità, perché la voce trasforma il corpo, lo accende, lo illumina, avvolgendo lo sguardo di chi ascolta con un’emozione che può far accapponare la pelle e venire il nodo in gola). Un’oasi dunque, piccola sì, ma paradigmatica. Che aiuta a sperare che ancora, se ci sono sogni da coltivare e coraggio per realizzarli, si possa cambiare la propria vita in meglio, con soddisfazione, solo per bravura e merito, e non per corruzione.
Più in generale, se si ha una voce intonata, e si ama canticchiare, perché non prendere lezioni di canto? Perché non iscriversi a un gruppo folcloristico, a un coro di musica sacra, o di blues? Per cantare bene bisogna respirare bene. Non si può farlo sotto il comandante dei tempi di guerra (il sistema nervoso simpatico, che ormai gli amici lettori conoscono bene), ma solo sotto il comandante dei tempi di pace (il sistema nervoso parasimpatico). Allora il canto può essere una pausa di bellezza, un’oasi che ci rigenera, un piccolo sogno nel cassetto cui dare spazio. Perché la nostra anima, il nostro cuore, la nostra mente, la nostra vita hanno un disperato bisogno di bellezza, di respiri profondi e acquietati, di una pausa in cui sintonizzarci sulla musica che ci vibra dentro, lontano dal rumore assordante e inutile del mondo. Musica e canto perfino come terapia del dolore di vivere: prima ancora che per i malati, per noi, cosiddetti sani...
Tuttavia non è solo un’attrazione di musica. L’attenzione è catturata anche dalla curiosità di riconoscere abilità, freschezze e talenti nuovi, o arbìtri e inadeguatezze che vengono peraltro puniti con l’eliminazione. C’è il gusto di scegliere mentalmente il proprio vincente, e vedere se la giuria voterà così o no. Infervorandosi se si guarda la trasmissione con familiari o amici.
Più in profondità, per il grande pubblico c’è il gusto di vedere in gara persone normali – con cui è facile identificarsi – che hanno avuto il coraggio di coltivare per anni un sogno, una passione, con rigore e disciplina. E sono toccanti i ritratti, di ragazzi e ragazze, di uomini e donne, che fanno i lavori più vari – il barista, il piastrellista, la commessa – e intanto studiano, solfeggiano, cantano. Crescono dal punto di vista artistico, e intanto faticano in normalissime, e a volte difficili, vite quotidiane. Sullo sfondo, famiglie sane: genitori che hanno trasmesso la passione del canto, anche solo come diletto personale, e che pure in famiglie molto semplici hanno incoraggiato i figli a inseguire il loro sogno, a non mollare. Madri, e tanti padri, che sono i primi fan, i primi sostenitori. Non tanto, o non solo, per ambizione personale (quella si vede di più nei genitori dei bambini che partecipano a concorsi canori) ma proprio perché sentono il valore di inseguire un sogno di realizzazione diversa. Ruolo maieutico ancora più preciso quando la vocazione affiora tardi, dopo un percorso carsico spesso dovuto anche alla scarse opportunità di studiare canto in piccoli paesi e con limitati mezzi economici. C’è allora la soddisfazione di vedere che in quel contesto la bravura premia; che la tecnica canora non s’improvvisa ma richiede dedizione, studio, tempo e sacrifici; che si può uscire dall’anonimato per un talento vero coltivato, per un sogno non tradito e non abbandonato, per un progetto lasciato e ritrovato, anche quando la strada sembrava lunga e senza esito certo, perché senza sogni veri la vita s’intristisce, pena e scivola via, senza più gioia, senza più emozioni.
Non tutto luccica, certo, dietro la scena. Ma fa bene al cuore poter (ri)pensare e poter (ri)credere che impegnandosi si possa cambiare la propria vita, portandola dalla normalità all’unicità. Per cantare bene non serve essere figli di, amanti di, iscritti a, portaborse di. Non serve puntare sulla bellezza esteriore (basta una quieta normalità, perché la voce trasforma il corpo, lo accende, lo illumina, avvolgendo lo sguardo di chi ascolta con un’emozione che può far accapponare la pelle e venire il nodo in gola). Un’oasi dunque, piccola sì, ma paradigmatica. Che aiuta a sperare che ancora, se ci sono sogni da coltivare e coraggio per realizzarli, si possa cambiare la propria vita in meglio, con soddisfazione, solo per bravura e merito, e non per corruzione.
Più in generale, se si ha una voce intonata, e si ama canticchiare, perché non prendere lezioni di canto? Perché non iscriversi a un gruppo folcloristico, a un coro di musica sacra, o di blues? Per cantare bene bisogna respirare bene. Non si può farlo sotto il comandante dei tempi di guerra (il sistema nervoso simpatico, che ormai gli amici lettori conoscono bene), ma solo sotto il comandante dei tempi di pace (il sistema nervoso parasimpatico). Allora il canto può essere una pausa di bellezza, un’oasi che ci rigenera, un piccolo sogno nel cassetto cui dare spazio. Perché la nostra anima, il nostro cuore, la nostra mente, la nostra vita hanno un disperato bisogno di bellezza, di respiri profondi e acquietati, di una pausa in cui sintonizzarci sulla musica che ci vibra dentro, lontano dal rumore assordante e inutile del mondo. Musica e canto perfino come terapia del dolore di vivere: prima ancora che per i malati, per noi, cosiddetti sani...
Ballo, musica, canto e recitazione Emozioni e fattori emotivi Riflessioni di vita