«Mia madre non mi ha mai amato». Questo è stato il pensiero fisso, il nucleo duro e nero dentro al cuore che lo aveva tormentato fin dall’infanzia. Ardente, brillante, sportivo («ma sempre per vincere»), fin da piccolo il ragazzo faceva tutto al meglio, sperando con questo di ottenere finalmente l’amore della madre. Una madre lontana emotivamente, che lo feriva profondamente con la sua assenza affettiva.
Quest’uomo è figlio di due giovani ebrei, sopravvissuti ad Auschwitz. Al tempo della deportazione erano molto giovani e molto sani. Robusti e forti, furono assegnati a due campi di lavoro. Schiavi, di fatto, ma vivi. I genitori di entrambi e una sorella di lei, più gracile, morirono nelle camere a gas. Finita la guerra i due ragazzi si ritrovarono. Amici del cuore fin da piccoli, fuggirono dalla Polonia, patria matrigna, dove erano morti i loro familiari. Emigrarono in Canada. Si sposarono.
Il matrimonio non durò. Il lento veleno di Auschwitz continuava ad agire, profondo e pervadente: l’odore di morte, la perdita della famiglia, la brutalità, la fatica fisica, gli stenti, l’angoscia di chiedersi ogni giorno: «Domani sarò ancora vivo? Viva?». La solitudine, l’angoscia di morte imminente, la disperazione. Il ragazzo non lo sapeva. Non si parlava del passato, a casa. Tutto era murato nel silenzio. Dopo la separazione dei genitori, rimase con la madre. Di lei ricorda solo un’ombra, in casa.
Adulto, imprenditore di successo, ma sempre con quel tarlo di disamore a rodergli l’anima, in un periodo di crisi interiore profonda, decide di iniziare un lavoro terapeutico. Durante una seduta di gruppo, racconta la sua storia di assenza d’amore, di frustrazione, di sforzi vani per ottenere una tenerezza vera, uno sguardo affettuoso e profondo. Escono parole di rabbia, di rancore, di collera a lungo trattenuta. La tensione si taglia col coltello: «Ho fatto di tutto perché lei mi amasse. Ma lei non mi ha mai voluto bene». Silenzio.
«Non crede che ci potrebbe essere un’altra spiegazione?», dice piano il terapeuta. Nessuno parla. Un lungo silenzio. Quasi d’improvviso, l’uomo vede il passato sfilare davanti agli occhi. Muto. Lo sguardo lontano della madre. Pietrificata dal dolore del passato.
E’ lui che ora “vede” la madre per la prima volta. Sente la sua disperazione, la sua solitudine, il suo dolore immenso e senza nome. La sua lontananza, che era distacco dalla vita che l’aveva ferita a morte. Nel cuore e nella capacità di amare. Per la prima volta prova tenerezza vera verso sua madre, morta anni prima. L’uomo sente le lacrime uscire, scoppia in singhiozzi squassanti. Non piangeva da quando era piccolo piccolo. Sente sciogliersi la collera, la rabbia, la frustrazione che lo avevano bloccato per decenni in un’armatura di dolore. Esce dalla prigione del pensiero ossessivo «mia madre non mi ha mai amato». Esce a riveder le stelle.
Prova nostalgia, quel dolore del ritorno che può essere struggente e infinito.
Prova rimpianto, per non aver compreso in tempo.
E’ difficile accettare le ombre del passato. Così pesanti e cupe. Così ineludibili.
Inizia pian piano un dialogo interiore con lei: «Chissà che non sia troppo tardi. Chissà, se c’è un mondo oltre la morte, che lei possa sentire adesso la mia tenerezza. Il mio abbraccio. Che non sia troppo tardi per sentirsi consolata».
L’uomo tace. Un nodo di commozione gli serra la gola.
Mi resta nel cuore un insegnamento, fondamentale per tutti noi: «Prima di avvitarsi in un’unica lettura della vita e del mondo, è saggio cercare sempre un’altra spiegazione. Prima che sia troppo tardi». Un testamento morale.
Quest’uomo è figlio di due giovani ebrei, sopravvissuti ad Auschwitz. Al tempo della deportazione erano molto giovani e molto sani. Robusti e forti, furono assegnati a due campi di lavoro. Schiavi, di fatto, ma vivi. I genitori di entrambi e una sorella di lei, più gracile, morirono nelle camere a gas. Finita la guerra i due ragazzi si ritrovarono. Amici del cuore fin da piccoli, fuggirono dalla Polonia, patria matrigna, dove erano morti i loro familiari. Emigrarono in Canada. Si sposarono.
Il matrimonio non durò. Il lento veleno di Auschwitz continuava ad agire, profondo e pervadente: l’odore di morte, la perdita della famiglia, la brutalità, la fatica fisica, gli stenti, l’angoscia di chiedersi ogni giorno: «Domani sarò ancora vivo? Viva?». La solitudine, l’angoscia di morte imminente, la disperazione. Il ragazzo non lo sapeva. Non si parlava del passato, a casa. Tutto era murato nel silenzio. Dopo la separazione dei genitori, rimase con la madre. Di lei ricorda solo un’ombra, in casa.
Adulto, imprenditore di successo, ma sempre con quel tarlo di disamore a rodergli l’anima, in un periodo di crisi interiore profonda, decide di iniziare un lavoro terapeutico. Durante una seduta di gruppo, racconta la sua storia di assenza d’amore, di frustrazione, di sforzi vani per ottenere una tenerezza vera, uno sguardo affettuoso e profondo. Escono parole di rabbia, di rancore, di collera a lungo trattenuta. La tensione si taglia col coltello: «Ho fatto di tutto perché lei mi amasse. Ma lei non mi ha mai voluto bene». Silenzio.
«Non crede che ci potrebbe essere un’altra spiegazione?», dice piano il terapeuta. Nessuno parla. Un lungo silenzio. Quasi d’improvviso, l’uomo vede il passato sfilare davanti agli occhi. Muto. Lo sguardo lontano della madre. Pietrificata dal dolore del passato.
E’ lui che ora “vede” la madre per la prima volta. Sente la sua disperazione, la sua solitudine, il suo dolore immenso e senza nome. La sua lontananza, che era distacco dalla vita che l’aveva ferita a morte. Nel cuore e nella capacità di amare. Per la prima volta prova tenerezza vera verso sua madre, morta anni prima. L’uomo sente le lacrime uscire, scoppia in singhiozzi squassanti. Non piangeva da quando era piccolo piccolo. Sente sciogliersi la collera, la rabbia, la frustrazione che lo avevano bloccato per decenni in un’armatura di dolore. Esce dalla prigione del pensiero ossessivo «mia madre non mi ha mai amato». Esce a riveder le stelle.
Prova nostalgia, quel dolore del ritorno che può essere struggente e infinito.
Prova rimpianto, per non aver compreso in tempo.
E’ difficile accettare le ombre del passato. Così pesanti e cupe. Così ineludibili.
Inizia pian piano un dialogo interiore con lei: «Chissà che non sia troppo tardi. Chissà, se c’è un mondo oltre la morte, che lei possa sentire adesso la mia tenerezza. Il mio abbraccio. Che non sia troppo tardi per sentirsi consolata».
L’uomo tace. Un nodo di commozione gli serra la gola.
Mi resta nel cuore un insegnamento, fondamentale per tutti noi: «Prima di avvitarsi in un’unica lettura della vita e del mondo, è saggio cercare sempre un’altra spiegazione. Prima che sia troppo tardi». Un testamento morale.
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