Un addio dove il padre si inchina al coraggio della figlia. E baciandole la mano, con commozione onora e benedice la sua scelta e il suo destino. Emoziona, entrare nei musei di guerra. Perché parlano di vita struggente e di morte, di speranze ardenti e di follie omicide. Ascoltando uomini e donne sopravvissuti alla distruzione della città si capisce perché la ricostruzione di Varsavia “com’era prima della guerra, con le sue case e i suoi monumenti uguali a prima” sia stata fatta tutta con denaro privato, di vecchi, di emigrati, di bambini, dei benestanti come dei poveri. Ognuno ha dato, pur con l’economia in ginocchio, e un’emigrazione spaventosa. Potenza dei simboli e della nostalgia, potenza del valore di un’identità nazionale forte, nonostante invasioni e distruzioni. Il museo è gremito di famiglie e di giovani polacchi. Pochissimi gli stranieri. Anche questo rivela un’anima, in questo luminoso e quieto sabato mattina di giugno. Fa pensare. Varsavia ricostruita non incanta con le atmosfere rarefatte e decadenti, distillate dal tempo e dalla storia, che hanno la magica Praga o l’incantevole Cracovia. E’ una città martire, più volte distrutta e risorta, testimone e vittima del lato oscuro dell’Europa moderna e dei suoi abissi, brulicanti di fantasmi e di mostri. Eppure, dopo aver visto quei filmati, ascoltato quelle testimonianze, quel dolore da distruzione e quella voglia di libertà e di vita, lo sguardo che si posa sui monumenti ricostruiti con cura e con amore coglie un’altra bellezza, un’altra fascinazione. L’orgoglio di un’identità nazionale che esiste prima e oltre la distruzione della case e dei palazzi. Un’identità profonda, fatta di fede e dignità, che rivuole i propri simboli, i profili amati della città, i colori, il profumo dei tigli, gli stemmi e le storie. Che vuole conoscere e capire, e rispetta la città nuova, ricostruita, con una pulizia e un senso dell’ordine (nonostante i mille cantieri) che mi fanno sentire imbarazzata ripensando alla sporcizia indifferente di tante città d’Italia. Sono le atmosfere, allora, a sedurre, è la nostalgia, ma è anche il coraggio, l’orgoglio di essere sopravvissuti tramandando ai figli e ai nipoti una testimonianza piena di voglia di fare ciascuno in prima persona.
Torna alla mente la frase di quel padre, e dispiega la sua potenza di verità umana universale. Disse in realtà quel padre, e dovrebbero dirlo tutti i padri (e le madri) del mondo: «Non vivere in modo stupido». Per dirlo oggi, non c’è bisogno di un’altra guerra, ma di ideali grandi, e di un senso alto della vita. Sapremo ritrovarli? Sapremo trasmetterli?
Guerra e genocidio - Documenti disponibili sul sito della Fondazione Alessandra Graziottin
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- Sono una creatura
- Una donna attende sulle colline
- Cessate d'uccidere i morti
- Il pianto di Andromaca
- I bimbi d'Estremadura
- Veglia notturna di un soldato
- Tornare a Leopoli
- Il ricordo di Hurbinek
Il dolore e la cultura - Storia
- La peste di Atene
- Papà Cervi e i suoi sette figli
- Frau Vita, reduce da Birkenau
- La ragazza del treno
- Shoah, il senso della memoria
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- L'armonia dei gesti semplici: ricordo di una donna russa
- Il ragazzo di nome David
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