L’efficacia didattica del convegno in presenza, come della condivisione a scuola, valorizza in più altre dinamiche: le discussioni esaltanti, quando le domande acute e pertinenti consentono di approfondire aspetti cardinali che non erano stati affrontati nella relazione; o quando spunti rilevanti per la pratica clinica fanno dire: «Da domani faccio così». Che sia arricchire l’anamnesi, la storia clinica, di approfondimenti non considerati prima. Che sia l’esame biochimico che capisci essere opportuno sin dai primi sintomi, senza attendere che la patologia diventi evidente agli esami per immagini. Che sia la terapia con cui integrare la tua pratica.
Nella condivisione in presenza della conoscenza, sia essa quella fondamentale della cultura scolastica, o quella specialistica delle diverse professioni, ci sono aspetti che fanno la differenza viva, che nessuna tecnologia può sostituire. Ogni insegnante per passione conosce bene i segnali che vengono dalla platea, sia essa una classe delle elementari o di un liceo, un corso per specializzandi o l’aula di un congresso mondiale. Due sono i segnali che più ricerco, che sento più motivanti e premianti. A volte arrivano al cuore lasciando un ricordo indelebile. Il primo è il silenzio in aula. Non perché qualcuno lo impone. No. E’ il silenzio spontaneo, assorto, concentratissimo, quando l’aria diventa quasi più tersa e cristallina, e l’ascolto è magnetico. Perché quello che dici, e come lo dici, comunica a più livelli. Parla all’emisfero sinistro, più attivo nei destrimani, per il ragionamento logico lineare. Nel campo medico, sono il dato scientifico, la statistica, l’analisi multivariata. Parla all’emisfero destro, dove abitano le emozioni e le capacità associative, dove si stratificano risonanze e ricordi, dove il “come” si dicono le cose può accendere una partecipazione profonda che la ragione altrimenti non conosce. A volte partecipa il cervello viscerale, quando l’attivazione di sensazioni profonde, più difficile in ambito scientifico, maggiore in ambito umanistico, attiva risonanze emotive ancora più arcaiche. Quando arriva quel silenzio, che va cercato con preparazione certosina di quel che si presenta e di come lo si presenta, è certezza. Umanissima certezza: il messaggio è passato. One shot. Non solo. Quel silenzio è maieutico per il relatore, e questo è un punto pregevolissimo. Perché quell’ascolto concentrato e appassionato attiva nel suo cervello miliardi di neuroni e associazioni. L’energia diventa circolare: ed è il relatore attento ad essere grato a quell’uditorio che lo porta a dare il meglio di sé, per condividere conoscenze e passione, per la professione e per la vita.
Ogni buon insegnante ama e ricerca quel silenzio. I momenti di silenzio assoluto restano nel cuore per sempre. E resteranno nel cuore dei suoi studenti, semi fecondi e preziosi perché accendono la voglia di conoscenza e di futuro. Di realizzare quella parte di sé ancora inespressa che dovrebbe essere la prima missione di ogni serio progetto educativo e formativo.
Nella piccola aula della classe, ma anche del piccolo corso, in parallelo al silenzio si muove poi un altro segnale, più difficile da cogliere nelle grandi sale: lo sguardo. Intenso, acceso, di nuovo concentratissimo, che a volte s’impenna in una midriasi, quella dilatazione della pupilla per frazioni di secondo, quando è l’anima sorpresa che affiora attenta a cogliere un attimo di verità toccante. Sono gli sguardi dei più giovani negli intervalli: sguardi intensi, luminosi, entusiastici, fari accesi in cervelli molto ben abitati, dove ogni neurone è una stella.
Tutti noi che abbiamo (anche) compiti educativi e formativi, abbiamo questo privilegio, questa responsabilità, questa opportunità. Accendere ancora più stelle nel cervello dei più giovani. Che siano figli, nipoti, allievi, atleti. Forse insegneremmo tutti con più passione, se ogni giorno ci chiedessimo: «Quante stelle sono riuscito ad accendere oggi, nel cervello dei miei ragazzi?». Lì abita il futuro generoso, che ha passione e cuore.
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