Il coraggio interiore vince. Vince anche nel dolore e nelle avversità. Da un lato, perché aiuta a esprimere al meglio le proprie risorse e i propri talenti, per affrontare nel modo più efficace le insidie della vita. Dall’altro, perché catalizza la voglia di aiutare degli altri. Proprio perché sobrietà e compostezza colpiscono ancora di più, evocano più rispetto e, a loro volta, stimolano gli altri a dare con più partecipazione. Purché non si dimentichi. Purché il coraggio sobrio, senza lamenti, dopo il primo entusiasmo di solidarietà, non diventi un alibi per premature pacificazioni di coscienza in chi dovrebbe aiutare a ricostruire. E a ricominciare a vivere.
La dignità nel dolore della gente d’Abruzzo ci ha colpiti ancora di più, per il contrasto tra le immagini violente dei paesi devastati, le storie laceranti di famiglie amputate in una notte, e il modo raccolto in cui ha affrontato la tragedia. Non urla, non grida, non imprecazioni. Poche parole, asciutte anche nel racconto, lacrime silenziose che scorrevano quasi con pudore anche sui volti degli uomini segnati dal lavoro e dallo sgomento della tragedia. Gente di montagna, abituata alla fatica dura, alla vita che conquisti ogni giorno e che nessuno ti regala, alla fatica di vivere scritta nei cromosomi di generazioni. E la voglia di ricostruire, subito, le case distrutte, i paesi rasi al suolo, con le proprie mani e le proprie forze. Ricordano, gli abruzzesi di montagna, la grande forza d’animo e la dignità, altrettanto profonda, dei friulani, dopo il terremoto del maggio del 1976. Chi è abituato ad affrontare da solo e in prima persona le avversità della vita, anche dopo le prove più dure, dopo il primo sgomento riunisce le forze, reagisce al dolore che paralizza la mente e il cuore e con calma e costanza ricomincia. Ricomincia da sé, dalla propria vita, dal bisogno di ricomporre orizzonti di vita frantumati, di ridare un nido alla famiglia, se qualcuno è sopravvissuto. Una casa, da cui ripartire per ricominciare a vivere. Perché crede nella vita con coraggio, nonostante tutto. Perché anche il terremoto, che non è il primo nella storia di questa gente, rientra nelle prove dell’esistenza, nei dolori che bisogna affrontare con dignità e da cui bisogna uscire, pur con il cuore a pezzi. Chi ha fede cerca di trovare un senso, nonostante tutto, anche nella tragedia, di interrogarsi sul perché di una prova così atroce, come il medico cattolico che quella notte fatale era di guardia in ospedale in un paese vicino, non leso dal terremoto. Tornato di corsa a casa, sotto le macerie ha trovato la moglie abbracciata ai due unici figli, morti con lei. Annichilito, devastato, torturato dall’assenza, non impreca, non urla contro un Dio che sembra mostrare nelle tragedie un volto indifferente. Quasi tra sé si chiede: “Anche questo avrà un senso, ma non so capire…”.
Ognuno fa la sua parte, perché questo è scritto da secoli nei codici di vita della gente di montagna, e ciascuno trova in sé un motivo per ricominciare. Anche chi ha perso tutto e tutti, e pensa in una parte del cuore che è meglio morire, però ricomincia, con raccolta determinazione, perché ci sono gli altri da aiutare. E trova coraggio e spinta a ripartire anche nel bisogno di ricostruire i paesi rasi al suolo. Ricostruirli nello stesso posto antico, perché significa riaffermare la continuità con le vite spezzate, per ricordarle.
L’atteggiamento sobrio e costruttivo della gente di montagna ci fa pensare al grande contrasto tra individuo e sistema, tra capacità di assunzione di responsabilità a livello personale, e attribuzione di tutto quello che non va allo Stato, al sistema appunto, agli altri. Chi ha sempre affrontato la fatica di vivere a viso aperto, con le proprie mani, la propria intelligenza e il proprio cuore, non si siede ad aspettare che altri ricostruiscano al posto suo. Non si tiene un’identità da “terremotato” per tutto il resto della vita a venire. No, ricomincia, con la coraggiosa determinazione di chi ha risposto in prima persona alle prove della vita.
Con questo comportamento, la gente di montagna, la gente dell’alto Abruzzo, dà un esempio dolente e forte al resto d’Italia, che ormai dell’incolpare “il sistema” ha fatto lo sport nazionale e l’alibi personale per ogni corruzione e ogni collusione. “E’ colpa del sistema” dice e pensa chi accetta mazzette per ogni lavoro, “tanto se non la prendo io la prenderebbe un altro”; lo dice chi fa politica per arricchirsi; chi non fa bene il proprio lavoro perché tanto l’Italia è allo sfascio; chi, soprattutto nel pubblico, trova ogni scusa per non lavorare, o lavorare al minimo; chi degrada l’ambiente perché tutti sporcano e predano e imbrattano.
Perché non ricominciare, ciascuno di noi, a riassumersi in prima persona tutte le responsabilità che gli competono, dall’educazione vera dei figli alla cura dell’ambiente, dalla qualità del lavoro quotidiano alla cura del mondo che altrimenti lasceremo sempre più sporco e inquinato? Perché dovremmo farlo? Per dignità personale. Per coraggio civile. Per solidarietà vera. Per amore della vita e del mondo. Perché la vita è così effimera che merita viverla al meglio, anche moralmente.
Attenzione: anche se le responsabilità ci sono e vanno accertate, perché chi ha sbagliato risponda. Ognuno di noi, osservando le riprese aeree, si è chiesto: come è possibile che ci siano case intatte, perfette, e vicino intere costruzioni rase al suolo? Chiese del Duecento quasi integre, sopravvissute ai secoli e a terremoti piccoli e grandi, e case costruite di recente, con criteri antisismici (?!), accartocciate su di sé come case di carta? Possibile che da mesi ci fossero scosse a sciami e nessuno strumento, nessuna tecnologia, nessun osservatorio abbia potuto anticipare che qualcosa di più potente e tragico era in agguato? Sapere che ci sono falde continentali che si scontrano e si muovono di sette millimetri al mese o all’anno, come a posteriori ci ricordano gli esperti, a che cosa serve se poi di fronte al terremoto vero siamo impreparati come nel medioevo?
Dopo la tragedia, abbiamo tutti una responsabilità precisa: non dimenticare, passata l’ondata emotiva delle prime ore e dei primi giorni, per evitare che la solitudine di chi ha perso affetti e casa diventi devastante. Continuare ad aiutare, con efficace costruttività, in modi controllati, per evitare cinici squali e predatori di risorse. E, soprattutto, reinterrogarci su quale sia il nostro livello di impegno civile nella nostra vita, dalla famiglia al lavoro, dalla città piccola o grande in cui abitiamo all’ambiente che ci circonda e ci nutre. Perché l’esempio grande di dignità nel dolore, di coraggiosa determinazione e di responsabilità civile della gente di Abruzzo non vada perduto.
La dignità nel dolore della gente d’Abruzzo ci ha colpiti ancora di più, per il contrasto tra le immagini violente dei paesi devastati, le storie laceranti di famiglie amputate in una notte, e il modo raccolto in cui ha affrontato la tragedia. Non urla, non grida, non imprecazioni. Poche parole, asciutte anche nel racconto, lacrime silenziose che scorrevano quasi con pudore anche sui volti degli uomini segnati dal lavoro e dallo sgomento della tragedia. Gente di montagna, abituata alla fatica dura, alla vita che conquisti ogni giorno e che nessuno ti regala, alla fatica di vivere scritta nei cromosomi di generazioni. E la voglia di ricostruire, subito, le case distrutte, i paesi rasi al suolo, con le proprie mani e le proprie forze. Ricordano, gli abruzzesi di montagna, la grande forza d’animo e la dignità, altrettanto profonda, dei friulani, dopo il terremoto del maggio del 1976. Chi è abituato ad affrontare da solo e in prima persona le avversità della vita, anche dopo le prove più dure, dopo il primo sgomento riunisce le forze, reagisce al dolore che paralizza la mente e il cuore e con calma e costanza ricomincia. Ricomincia da sé, dalla propria vita, dal bisogno di ricomporre orizzonti di vita frantumati, di ridare un nido alla famiglia, se qualcuno è sopravvissuto. Una casa, da cui ripartire per ricominciare a vivere. Perché crede nella vita con coraggio, nonostante tutto. Perché anche il terremoto, che non è il primo nella storia di questa gente, rientra nelle prove dell’esistenza, nei dolori che bisogna affrontare con dignità e da cui bisogna uscire, pur con il cuore a pezzi. Chi ha fede cerca di trovare un senso, nonostante tutto, anche nella tragedia, di interrogarsi sul perché di una prova così atroce, come il medico cattolico che quella notte fatale era di guardia in ospedale in un paese vicino, non leso dal terremoto. Tornato di corsa a casa, sotto le macerie ha trovato la moglie abbracciata ai due unici figli, morti con lei. Annichilito, devastato, torturato dall’assenza, non impreca, non urla contro un Dio che sembra mostrare nelle tragedie un volto indifferente. Quasi tra sé si chiede: “Anche questo avrà un senso, ma non so capire…”.
Ognuno fa la sua parte, perché questo è scritto da secoli nei codici di vita della gente di montagna, e ciascuno trova in sé un motivo per ricominciare. Anche chi ha perso tutto e tutti, e pensa in una parte del cuore che è meglio morire, però ricomincia, con raccolta determinazione, perché ci sono gli altri da aiutare. E trova coraggio e spinta a ripartire anche nel bisogno di ricostruire i paesi rasi al suolo. Ricostruirli nello stesso posto antico, perché significa riaffermare la continuità con le vite spezzate, per ricordarle.
L’atteggiamento sobrio e costruttivo della gente di montagna ci fa pensare al grande contrasto tra individuo e sistema, tra capacità di assunzione di responsabilità a livello personale, e attribuzione di tutto quello che non va allo Stato, al sistema appunto, agli altri. Chi ha sempre affrontato la fatica di vivere a viso aperto, con le proprie mani, la propria intelligenza e il proprio cuore, non si siede ad aspettare che altri ricostruiscano al posto suo. Non si tiene un’identità da “terremotato” per tutto il resto della vita a venire. No, ricomincia, con la coraggiosa determinazione di chi ha risposto in prima persona alle prove della vita.
Con questo comportamento, la gente di montagna, la gente dell’alto Abruzzo, dà un esempio dolente e forte al resto d’Italia, che ormai dell’incolpare “il sistema” ha fatto lo sport nazionale e l’alibi personale per ogni corruzione e ogni collusione. “E’ colpa del sistema” dice e pensa chi accetta mazzette per ogni lavoro, “tanto se non la prendo io la prenderebbe un altro”; lo dice chi fa politica per arricchirsi; chi non fa bene il proprio lavoro perché tanto l’Italia è allo sfascio; chi, soprattutto nel pubblico, trova ogni scusa per non lavorare, o lavorare al minimo; chi degrada l’ambiente perché tutti sporcano e predano e imbrattano.
Perché non ricominciare, ciascuno di noi, a riassumersi in prima persona tutte le responsabilità che gli competono, dall’educazione vera dei figli alla cura dell’ambiente, dalla qualità del lavoro quotidiano alla cura del mondo che altrimenti lasceremo sempre più sporco e inquinato? Perché dovremmo farlo? Per dignità personale. Per coraggio civile. Per solidarietà vera. Per amore della vita e del mondo. Perché la vita è così effimera che merita viverla al meglio, anche moralmente.
Attenzione: anche se le responsabilità ci sono e vanno accertate, perché chi ha sbagliato risponda. Ognuno di noi, osservando le riprese aeree, si è chiesto: come è possibile che ci siano case intatte, perfette, e vicino intere costruzioni rase al suolo? Chiese del Duecento quasi integre, sopravvissute ai secoli e a terremoti piccoli e grandi, e case costruite di recente, con criteri antisismici (?!), accartocciate su di sé come case di carta? Possibile che da mesi ci fossero scosse a sciami e nessuno strumento, nessuna tecnologia, nessun osservatorio abbia potuto anticipare che qualcosa di più potente e tragico era in agguato? Sapere che ci sono falde continentali che si scontrano e si muovono di sette millimetri al mese o all’anno, come a posteriori ci ricordano gli esperti, a che cosa serve se poi di fronte al terremoto vero siamo impreparati come nel medioevo?
Dopo la tragedia, abbiamo tutti una responsabilità precisa: non dimenticare, passata l’ondata emotiva delle prime ore e dei primi giorni, per evitare che la solitudine di chi ha perso affetti e casa diventi devastante. Continuare ad aiutare, con efficace costruttività, in modi controllati, per evitare cinici squali e predatori di risorse. E, soprattutto, reinterrogarci su quale sia il nostro livello di impegno civile nella nostra vita, dalla famiglia al lavoro, dalla città piccola o grande in cui abitiamo all’ambiente che ci circonda e ci nutre. Perché l’esempio grande di dignità nel dolore, di coraggiosa determinazione e di responsabilità civile della gente di Abruzzo non vada perduto.