Da anni. Ascoltare può dare il senso di esistere. E di valere, almeno per qualcuno. Può rendere felici. Tuttavia, chi ascolta, oggi? Intendo: con il cuore? E ascoltare chi? E perché? Siamo sommersi di suoni e voci, di un rumore di fondo assordante. Siamo iper-connessi. Eppure moltissime persone, anche se vivono in coppia o in famiglia, si sentono profondamente sole. Per non parlare dei single anagrafici. Cresce l’uso di alcol e di cannabis, sorta di autoterapia per silenziare il senso di vuoto interiore e di sottile infelicità che permea molte vite. Cresce in parallelo il bisogno di psicofarmaci per calmare il malessere, il senso di solitudine. Tutti noi vorremmo qualcuno che ci ascolti davvero. Ma chi di noi ama ascoltare?
L’arte di ascoltare è una capacità sempre più rara e sempre meno coltivata. Non parlo dello psicoterapeuta che lo fa per professione. Ma delle persone normali, nella vita quotidiana. In tempi frenetici, caratterizzati dall’esigenza del fare, sembra non esserci più tempo per ascoltare. Forse non c’è nemmeno più la motivazione, e il gusto, di farlo. E se, sempre più raramente, arriva un accogliente «Parlami di te», ecco che la risposta, figlia dei tempi, si accentra su ciò che si è realizzato nella vita. Una sorta di carta di presentazione attraverso il fare e il mostrare. Solo nell’innamoramento profondo, nell’amicizia vera, negli affetti familiari dove vibra l’anima, o in quella forma speciale di dialogo che è la psicoterapia ben fatta, il “parlami di te” si apre davvero sull’interiorità, e non sugli ottenimenti esteriori. Parlami di te: dimmi quello che senti, come ti senti. Quello che hai rischiato e perduto per realizzare i tuoi sogni. Quello che hai provato, pensato, temuto. Dimmi delle emozioni che oggi ti danno leggerezza. Degli scacchi che ti hanno fatto piangere. Delle piccole cose inattese che ti regalano un sorriso. Dei ricordi belli. Fammi viaggiare dentro la tua anima.
E’ incredibile quante persone non sappiano – o non osino più – parlare di sé. Restano sulla superficie delle cose, e dei selfie. Non riescono più a raccontare la loro storia. Forse perché per troppo tempo nessuno le ha ascoltate davvero. E perché per svelare l’anima bisogna fidarsi. Non ci sarebbe, altrimenti, questa percezione crescente di desolata solitudine. E quand’anche si parli, non si è ascoltati con il cuore. Non ci sarebbero tanti omicidi e suicidi, e tanto bullismo e violenza di cui vediamo solo gli atti estremi, commentati con un inquietante: «Era tutto normale». Nessuno ha saputo ascoltare in tempo. Sento di esistere se l’emozione che la mia storia porta con sé penetra nella tua anima. Ti tocca, lascia una traccia leggera. O un urlo di aiuto che ti porta ad aiutarmi. Un segno che ti cambia e mi cambia. Difficile, sempre più difficile. Le parole si muovono nell’aria, danzano anche, inutilmente, scorrono sulla superficie del cuore, e non lasciano traccia.
Parlami di te… e se l’ascolto c’è, ed è intenso e profondo, diventa una cura che allontana le malinconie e il dolore d’essere soli. A me succede con alcune pazienti, anche se poi accumulo ritardi cosmici. Basta una pausa attenta per ascoltare storie che fermano il tempo. E rendono unico quell’incontro. A volte, persino storie che curano: chi racconta e chi ascolta. Perché chi ascolta viene benedetto con l’energia luminosa di chi si sente riconosciuto. Mi torna in mente un vecchio detto: «Non sprecare il tempo: è il tessuto di cui è fatta la vita». Ecco, il tempo dell’ascolto tesse una storia unica nel tessuto della nostra vita, quando ci soffermiamo ad ascoltare con il cuore. Perché non farlo ancora? Con i figli almeno. E non solo.
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